Corriere della Sera - La Lettura
I bambini ci (ri)guardano
Damiano e Fabio D’Innocenzo hanno vinto a Berlino per la sceneggiatura di «Favolacce», il film che ora hanno distribuito sulle piattaforme «on demand». Narrano ferite, anche quelle dell’infanzia: «Ma ci chiediamo che cosa pensano i ragazzini»»
Avevano in programma una primavera movimentata. Un piccolo giro del mondo, di festival in festival, dopo l’Orso d’argento vinto a fine febbraio a Berlino per la sceneggiatura di Favolacce. La stessa Berlinale che aveva lanciato il loro esordio, La terra dell’abbastanza. Invece Fabio e Damiano D’Innocenzo, fratelli gemelli, si sono trovati, causa pandemia, per la prima volta separati (anche se in linea d’aria vicini, nelle loro case nel quartiere romano Esquilino). A osservare dalle mure domestiche le reazioni del pubblico di fronte al film, interpretato da Elio Germano («Siamo simili: come noi, si è rassegnato a essere inquieto»). Uscito, anziché in sala, on demand, dall’11 maggio. Bizzarro destino per gli autori di un film girato a 31 anni su un canovaccio steso quando ne avevano 19, una favola nera che parla «di come si possano rispettare codici di segretezza e debolezze umane all’interno del nucleo familiare, del nascondere tutto dietro una porta chiusa a chiave». Famiglie tenute insieme da aspirazioni frustrate, tutti ugualmente occupati a sentirsi migliori di altri uguali a loro, testimonial di un distanziamento emotivo tra congiunti di cui fanno le spese i bambini.
Che effetto vi fa l’idea che il pubblico lo stia vedendo proprio ora, dai propri divani e non dalle poltrone dei cinema?
FABIO — Il primo giorno di streaming l’ho affittato alle 21, mentre tanti altri lo stavano facendo. Con un certo imbarazzo, perché parla di noi anche se smarcandosi dall’autobiografia spicciola. Alla fine ero fiero di avere raccontato quella visione di infanzia. Mi ha anche fatto male, un effetto catartico, ho sentito di aver perso tante cose di un’età non più cosi vicina.
DAMIANO — Da qualche mese sono sparito dai social network, utili per tastare il passaparola. Però i primi dati ci dicono che il film viaggia bene e ha un pubblico molto trasversale. Per me Favolacce vuol dire molto. Il cinema, l’arte in generale, ti permette di andare indietro nel tempo. Non curi le ferite, ce ne sono talmente tante altre che si sovrappongono. Puoi solo ordinare un po’ la matassa. Con Favolacce sono tornato nel luogo del delitto e ho trovato tanta dolcezza. Mi sono riconosciuto in tutti i bambini: colori, occhiate, furbizie, quella bellissima perspicacia. Disarmato. Sono stato io fregato da loro: fino a un anno fa pensavamo di essere noi i ragazzini scaltri capaci di fregare gli altri.
I bambini nel film sono sempre a portata di sguardo ma gli adulti sembra non li vedano.
DAMIANO — Sta succedendo anche ora con l’emergenza. Non mi sembra ci si preoccupi molto dell’influenza che potrà avere tutto questo sui più piccoli; mi spaventa. Chiusi in casa è come se fossero tornati nel pancione. Sento che si parla di cose pratiche: come surrogare l’uscita, il parco, la scuola, considerata un parcheggio per permettere ai genitori di andare a lavorare, anziché occasione di crescita. Ci stiamo chiedendo che cosa pensano? Lo dico da non genitore, penso a mia nipote di 15 anni: non parla molto, è in fase ermetica, ma le faccio tante domande. Vor
rei che qualcuno lavorasse su questo.
Quando è uscito «La terra dell’abbastanza» eravate outsider assoluti. «Favolacce» ha confermato il vostro talento. Avete collaborato con Matteo Garrone per «Dogman», siete pronti a girare una serie per Sky, avete scritto un terzo film. Vi pesa l’etichetta «da Tor Bella Monaca a Berlino»?
DAMIANO — Dà fastidio, sì. Non siamo i personaggi dei nostri film: non abbiamo investito una persona né fabbricato una bomba casalinga... L’autobiografismo sta nel punto di vista, nel nostro sguardo. Noi siamo molto introversi e il nostro modo per uscire dal confine del linguaggio sono i film, le poesie, le fotografie. Ci sveliamo più attraverso quello che facciamo che parlando.
Il calcio è un riferimento costante. I paragoni tra Pasolini e Zidane, le dediche a Franco Baldini, ex dirigente della Roma, i gol di Cassano. Perché?
FABIO — Il calcio è metafora di tante cose. L’epica delle partite ci conquista in ogni modo, dal vivo, in video, alla radio, raccontato da padre a figlio. La durata di queste epopee è poco più di 90 minuti. I nostri film durano uno 94 e l’altro 96 minuti, non a caso. È la soglia dell’attenzione perfetta per entrare in una somma di emozioni contrastanti. Penso che sia una similitudine utile per scardinare questa cosa degli artisti. Totti è un artista. Il cinema è disciplina agonistica, la resistenza fisica sul set conta. Per non morire dopo una settimana di riprese, serve una forma mentis particolare, concentrazione.
DAMIANO — «Essere artisti per noi è un allenamento muscolare, lo dico da
militante pigro, rispetto a mio fratello. Tutti i giorni lavora. Io sono più uterino e dionisiaco. Ma lo seguo nel nostro modo: mai passare un giorno senza avere scritto qualcosa. L’allenamento aiuta a uscire dal già fatto. Non ci sentiamo mai così bravi da accontentarci.
Avete dedicato un libro di poesie a vostra madre. In «Favolacce» appaiono figure materne diverse, Barbara Chichiarelli, la giovanissima Ileana D’Ambra.
FABIO — Per noi la figura materna è così bella perché è sfumata, la sentiamo più vicina a noi. In Favolacce riflettono la complessità. Compreso il personaggio di Gabriel Montesi che è padre e madre insieme, ha la dolcezza che sa avere una madre, è un uomo tenero, i suoi errori privi di retropensiero. Lui e suo figlio sono quelli che ce la fanno. Mentre personaggi segnati dal machismo sono irrecuperabili.
FABIO — Ci sta molto a cuore, su questo alziamo i toni. La concezione dell’essere maschio è da ribaltare. Noi siamo persone femminee, ci siamo sempre sentiti fuori posto in questa casella di uomo. Speriamo di non essere più condannati a modelli retorici in quanto maschietti. Un inferno privato di disagio e inadeguatezza, al quale si risponde con la caricatura del maschio. Ci siamo dentro. Il tema andrebbe approfondito, è importante affrontare sessualità e relazioni. Avete una sorella e fratello maggiore: in che rapporti siete con loro?
DAMIANO — Abbiamo la fortuna di avere una famiglia da Mulino Bianco, essere stati in contesti semplici ci ha unito.
Anticipiamo i problemi, la mancanza di giudizio e l’ironia anche macabra è di grande aiuto. Adesso siamo sparpagliati, genitori a Borgo Sabotino, sorella a Trevignano, fratello in Danimarca, noi a Roma. Da lei abbiamo ricevuto tantissimo, le letture, Rodari, Charlie Brown, da nostro fratello l’arte del disegno, l’uso degli storyboard. Fece la scuola di cinema Rossellini, poi è diventato chef. Noi l’alberghiero e siamo registi. Bello scambio.
Autodidatti e onnivori, letteratura, poesia, fumetto. Rimpiangete di non aver frequentato una scuola di cinema?
FABIO — No. Grande rispetto per chi lo ha fatto, ma per noi sarebbe stato deleterio. Ci sono tanti modi di fare cinema, Takeshi Kitano, John Woo, Alice Rohrwacher. L’importante, al di là degli aspetti tecnici, è rimanere in ascolto della propria sensibilità. Come avete lavorato in quarantena?
DAMIANO — Ognuno scriveva e ci mandavamo cose via mail, un processo un po’ più farraginoso, quando siamo insieme è più divertente, non lo nego. Ma lavorare ci ha aiutato. Non è cambiato lo sguardo, sempre un po’ reticente. È imprescindibile, lo spettatore non può essere passivo. È tutto soggettivo, non c’è mai una verità assoluta. Come dice giustamente Sorrentino: hanno tutti ragione. FABIO — Ci siamo adeguati, come tutti. Ognuno nel proprio contesto. Più che a Tor Bella Monaca siete cresciuti sul litorale laziale.
DAMIANO — A proposito di autobiografismo: i nostri due film sono legati alla geografia. La periferia nel primo: ci siamo nati ma a 5 anni già stavamo in campagna, a 7 ad Anzio, poi Nettuno. Sentivo quella rabbia che covava, dialetto romano ma asprezze da pescatore, grande frustrazione per non avercela fatta. La gente del posto aveva pensato di fare di Anzio la seconda casa e si è adattata con la crisi economica a farla diventare prima e unica abitazione. È stato proprio questo lo spunto di Favolacce, una violenza somatizzata. Ci torno pochissimo. Non sono neanche un essere marino.
FABIO — Io invece mi sento molto Cancro che è il nostro segno, la relazione con il mare è importantissima. Favolacce è un film molto liquido, piscina, lacrime; anche la struttura è ondivaga. Il litorale romano è poco esplorato. Pasolini, Caligari, certo, Leone Pompucci con Came
rieri, bellissimo ritratto di una brigata di un ristorante a Tornavajanica. Anche Ri
de di Mastandrea. Che rapporto avete con Roma? FABIO — Sempre un po’ complicato, come un matrimonio che dura da 31 anni, ci sono strappi, voglia di evadere, se anche emigrassi a Parigi, città dei miei sogni, me la porterei dietro. Fa parte del nostro Dna, è nel nostro modo di parlare. Non vuol dire che la racconteremo sempre nelle nostre storie.
DAMIANO — Roma è una città che non ti giudica mai, ti guarda con occhi storti, non ti da mai del lei, è pigra, balbetta, è irriverente. Perfetta per persone di grande insicurezza. Quando sto male, vado nel vero centro che per me è la stazione Termini e mi confondo con le persone. Divento invisibile e trovo pace. Essere gemelli, vita simbiotica?
DAMIANO — È un rapporto complicato, come una somma di dolori. Crescendo arriva il momento che non puoi più stare assieme. Ma quando vedo mio fratello ho negli occhi dieci anni prima di questi, pranzi e cene di cracker, Franco Baldini che ci ha pagato l’affitto per sei mesi: «Scrivete poesie», ci diceva. Ci sentiamo sempre, ci diamo il buongiorno e la buonanotte, è il primo e ultimo pensiero che faccio.
FABIO — Vorrei dare una risposta gemella. Posso?