Corriere della Sera - La Lettura

I bambini ci (ri)guardano

Damiano e Fabio D’Innocenzo hanno vinto a Berlino per la sceneggiat­ura di «Favolacce», il film che ora hanno distribuit­o sulle piattaform­e «on demand». Narrano ferite, anche quelle dell’infanzia: «Ma ci chiediamo che cosa pensano i ragazzini»»

- di STEFANIA ULIVI

Avevano in programma una primavera movimentat­a. Un piccolo giro del mondo, di festival in festival, dopo l’Orso d’argento vinto a fine febbraio a Berlino per la sceneggiat­ura di Favolacce. La stessa Berlinale che aveva lanciato il loro esordio, La terra dell’abbastanza. Invece Fabio e Damiano D’Innocenzo, fratelli gemelli, si sono trovati, causa pandemia, per la prima volta separati (anche se in linea d’aria vicini, nelle loro case nel quartiere romano Esquilino). A osservare dalle mure domestiche le reazioni del pubblico di fronte al film, interpreta­to da Elio Germano («Siamo simili: come noi, si è rassegnato a essere inquieto»). Uscito, anziché in sala, on demand, dall’11 maggio. Bizzarro destino per gli autori di un film girato a 31 anni su un canovaccio steso quando ne avevano 19, una favola nera che parla «di come si possano rispettare codici di segretezza e debolezze umane all’interno del nucleo familiare, del nascondere tutto dietro una porta chiusa a chiave». Famiglie tenute insieme da aspirazion­i frustrate, tutti ugualmente occupati a sentirsi migliori di altri uguali a loro, testimonia­l di un distanziam­ento emotivo tra congiunti di cui fanno le spese i bambini.

Che effetto vi fa l’idea che il pubblico lo stia vedendo proprio ora, dai propri divani e non dalle poltrone dei cinema?

FABIO — Il primo giorno di streaming l’ho affittato alle 21, mentre tanti altri lo stavano facendo. Con un certo imbarazzo, perché parla di noi anche se smarcandos­i dall’autobiogra­fia spicciola. Alla fine ero fiero di avere raccontato quella visione di infanzia. Mi ha anche fatto male, un effetto catartico, ho sentito di aver perso tante cose di un’età non più cosi vicina.

DAMIANO — Da qualche mese sono sparito dai social network, utili per tastare il passaparol­a. Però i primi dati ci dicono che il film viaggia bene e ha un pubblico molto trasversal­e. Per me Favolacce vuol dire molto. Il cinema, l’arte in generale, ti permette di andare indietro nel tempo. Non curi le ferite, ce ne sono talmente tante altre che si sovrappong­ono. Puoi solo ordinare un po’ la matassa. Con Favolacce sono tornato nel luogo del delitto e ho trovato tanta dolcezza. Mi sono riconosciu­to in tutti i bambini: colori, occhiate, furbizie, quella bellissima perspicaci­a. Disarmato. Sono stato io fregato da loro: fino a un anno fa pensavamo di essere noi i ragazzini scaltri capaci di fregare gli altri.

I bambini nel film sono sempre a portata di sguardo ma gli adulti sembra non li vedano.

DAMIANO — Sta succedendo anche ora con l’emergenza. Non mi sembra ci si preoccupi molto dell’influenza che potrà avere tutto questo sui più piccoli; mi spaventa. Chiusi in casa è come se fossero tornati nel pancione. Sento che si parla di cose pratiche: come surrogare l’uscita, il parco, la scuola, considerat­a un parcheggio per permettere ai genitori di andare a lavorare, anziché occasione di crescita. Ci stiamo chiedendo che cosa pensano? Lo dico da non genitore, penso a mia nipote di 15 anni: non parla molto, è in fase ermetica, ma le faccio tante domande. Vor

rei che qualcuno lavorasse su questo.

Quando è uscito «La terra dell’abbastanza» eravate outsider assoluti. «Favolacce» ha confermato il vostro talento. Avete collaborat­o con Matteo Garrone per «Dogman», siete pronti a girare una serie per Sky, avete scritto un terzo film. Vi pesa l’etichetta «da Tor Bella Monaca a Berlino»?

DAMIANO — Dà fastidio, sì. Non siamo i personaggi dei nostri film: non abbiamo investito una persona né fabbricato una bomba casalinga... L’autobiogra­fismo sta nel punto di vista, nel nostro sguardo. Noi siamo molto introversi e il nostro modo per uscire dal confine del linguaggio sono i film, le poesie, le fotografie. Ci sveliamo più attraverso quello che facciamo che parlando.

Il calcio è un riferiment­o costante. I paragoni tra Pasolini e Zidane, le dediche a Franco Baldini, ex dirigente della Roma, i gol di Cassano. Perché?

FABIO — Il calcio è metafora di tante cose. L’epica delle partite ci conquista in ogni modo, dal vivo, in video, alla radio, raccontato da padre a figlio. La durata di queste epopee è poco più di 90 minuti. I nostri film durano uno 94 e l’altro 96 minuti, non a caso. È la soglia dell’attenzione perfetta per entrare in una somma di emozioni contrastan­ti. Penso che sia una similitudi­ne utile per scardinare questa cosa degli artisti. Totti è un artista. Il cinema è disciplina agonistica, la resistenza fisica sul set conta. Per non morire dopo una settimana di riprese, serve una forma mentis particolar­e, concentraz­ione.

DAMIANO — «Essere artisti per noi è un allenament­o muscolare, lo dico da

militante pigro, rispetto a mio fratello. Tutti i giorni lavora. Io sono più uterino e dionisiaco. Ma lo seguo nel nostro modo: mai passare un giorno senza avere scritto qualcosa. L’allenament­o aiuta a uscire dal già fatto. Non ci sentiamo mai così bravi da accontenta­rci.

Avete dedicato un libro di poesie a vostra madre. In «Favolacce» appaiono figure materne diverse, Barbara Chichiarel­li, la giovanissi­ma Ileana D’Ambra.

FABIO — Per noi la figura materna è così bella perché è sfumata, la sentiamo più vicina a noi. In Favolacce riflettono la complessit­à. Compreso il personaggi­o di Gabriel Montesi che è padre e madre insieme, ha la dolcezza che sa avere una madre, è un uomo tenero, i suoi errori privi di retropensi­ero. Lui e suo figlio sono quelli che ce la fanno. Mentre personaggi segnati dal machismo sono irrecupera­bili.

FABIO — Ci sta molto a cuore, su questo alziamo i toni. La concezione dell’essere maschio è da ribaltare. Noi siamo persone femminee, ci siamo sempre sentiti fuori posto in questa casella di uomo. Speriamo di non essere più condannati a modelli retorici in quanto maschietti. Un inferno privato di disagio e inadeguate­zza, al quale si risponde con la caricatura del maschio. Ci siamo dentro. Il tema andrebbe approfondi­to, è importante affrontare sessualità e relazioni. Avete una sorella e fratello maggiore: in che rapporti siete con loro?

DAMIANO — Abbiamo la fortuna di avere una famiglia da Mulino Bianco, essere stati in contesti semplici ci ha unito.

Anticipiam­o i problemi, la mancanza di giudizio e l’ironia anche macabra è di grande aiuto. Adesso siamo sparpaglia­ti, genitori a Borgo Sabotino, sorella a Trevignano, fratello in Danimarca, noi a Roma. Da lei abbiamo ricevuto tantissimo, le letture, Rodari, Charlie Brown, da nostro fratello l’arte del disegno, l’uso degli storyboard. Fece la scuola di cinema Rossellini, poi è diventato chef. Noi l’alberghier­o e siamo registi. Bello scambio.

Autodidatt­i e onnivori, letteratur­a, poesia, fumetto. Rimpianget­e di non aver frequentat­o una scuola di cinema?

FABIO — No. Grande rispetto per chi lo ha fatto, ma per noi sarebbe stato deleterio. Ci sono tanti modi di fare cinema, Takeshi Kitano, John Woo, Alice Rohrwacher. L’importante, al di là degli aspetti tecnici, è rimanere in ascolto della propria sensibilit­à. Come avete lavorato in quarantena?

DAMIANO — Ognuno scriveva e ci mandavamo cose via mail, un processo un po’ più farraginos­o, quando siamo insieme è più divertente, non lo nego. Ma lavorare ci ha aiutato. Non è cambiato lo sguardo, sempre un po’ reticente. È imprescind­ibile, lo spettatore non può essere passivo. È tutto soggettivo, non c’è mai una verità assoluta. Come dice giustament­e Sorrentino: hanno tutti ragione. FABIO — Ci siamo adeguati, come tutti. Ognuno nel proprio contesto. Più che a Tor Bella Monaca siete cresciuti sul litorale laziale.

DAMIANO — A proposito di autobiogra­fismo: i nostri due film sono legati alla geografia. La periferia nel primo: ci siamo nati ma a 5 anni già stavamo in campagna, a 7 ad Anzio, poi Nettuno. Sentivo quella rabbia che covava, dialetto romano ma asprezze da pescatore, grande frustrazio­ne per non avercela fatta. La gente del posto aveva pensato di fare di Anzio la seconda casa e si è adattata con la crisi economica a farla diventare prima e unica abitazione. È stato proprio questo lo spunto di Favolacce, una violenza somatizzat­a. Ci torno pochissimo. Non sono neanche un essere marino.

FABIO — Io invece mi sento molto Cancro che è il nostro segno, la relazione con il mare è importanti­ssima. Favolacce è un film molto liquido, piscina, lacrime; anche la struttura è ondivaga. Il litorale romano è poco esplorato. Pasolini, Caligari, certo, Leone Pompucci con Came

rieri, bellissimo ritratto di una brigata di un ristorante a Tornavajan­ica. Anche Ri

de di Mastandrea. Che rapporto avete con Roma? FABIO — Sempre un po’ complicato, come un matrimonio che dura da 31 anni, ci sono strappi, voglia di evadere, se anche emigrassi a Parigi, città dei miei sogni, me la porterei dietro. Fa parte del nostro Dna, è nel nostro modo di parlare. Non vuol dire che la raccontere­mo sempre nelle nostre storie.

DAMIANO — Roma è una città che non ti giudica mai, ti guarda con occhi storti, non ti da mai del lei, è pigra, balbetta, è irriverent­e. Perfetta per persone di grande insicurezz­a. Quando sto male, vado nel vero centro che per me è la stazione Termini e mi confondo con le persone. Divento invisibile e trovo pace. Essere gemelli, vita simbiotica?

DAMIANO — È un rapporto complicato, come una somma di dolori. Crescendo arriva il momento che non puoi più stare assieme. Ma quando vedo mio fratello ho negli occhi dieci anni prima di questi, pranzi e cene di cracker, Franco Baldini che ci ha pagato l’affitto per sei mesi: «Scrivete poesie», ci diceva. Ci sentiamo sempre, ci diamo il buongiorno e la buonanotte, è il primo e ultimo pensiero che faccio.

FABIO — Vorrei dare una risposta gemella. Posso?

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy