Corriere della Sera - La Lettura

Lo scrittore apocalitti­co ai lettori post-apocalitti­ci

- Di DEMETRIO PAOLIN

Una delle qualità maggiori di uno scrittore sta nel riuscire a immaginare il proprio lettore. Georgi Gospodinov parla, in questa intervista, di «un lettore post-apocalitti­co» ed è chiaro il collegamen­to con l’attuale pandemia, ma Gospodinov è un autore comunque apocalitti­co, abituato a crolli di universi che si pensavano monolitici. Ne è un esempio il suo nuovo libro, Tutti i nostri corpi che ha un interessan­te sottotitol­o: Storie superbrevi. Il testo è, infatti, composto di 103 racconti, in cui lo scrittore bulgaro ci fornisce l’incredibil­e encicloped­ia di un mondo in via di sparizione. Come recita uno dei titoli dei pezzi che compongono questo mosaico narrativo, il libro potrebbe essere visto come una Collezione di storie impossibil­i: «Storia delle nuvole del XII secolo, Storia del desiderio di essere altrove, Storia delle mosche nate nel 1968 (e morte nello stesso anno), Storia della malinconia alle sei di sera, Storia delle storie impossibil­i». Gospodinov non smette mai di raccontare la realtà attraverso uno sguardo malinconic­o, in bilico tra il sorriso clownesco e la grande tradizione della letteratur­a mitteleuro­pea (Kafka, Kertész, Manea). Proprio per queste ragioni, per la lucidità con cui lavora sulle forme sia brevi che lunghe, abbiamo rivolto a lui alcune domande, nate dalla lettura del suo lavoro.

La prima domanda non può che essere dedicata all’attuale situazione mondiale. Lei crede che il Covid-19 abbia cambiato la sua scrittura? In questi mesi i lettori sono tornati a scoprire o rileggere i grandi classici, antichi e moderni, della letteratur­a della peste, lei pensa che potrà nascere un nuovo romanzo da questa pandemia?

«Ritengo che questo virus sia una macchina del tempo. Guardiamo vecchi film e vecchie partite di calcio, leggiamo vecchi romanzi, e sentiamo nostalgia di un mondo che solo tre mesi fa odiavamo. A gennaio, poco prima che tutto questo accadesse, ho finito il mio nuovo romanzo. L’ho composto negli ultimi tre anni, e mi sono convinto che l’ansia che viviamo oggi sia figlia di questi ultimi anni. La gente, però, ha ancora fame di storie, e questa mi pare una buona notizia. Penso che il saggio sia il genere adatto a raccontare l’attuale crisi; invece per un buon romanzo dovremo aspettare un po’ di più: Il diario dell’anno della peste di Daniel Defoe, uno dei testi narrativi più importanti sulla peste, è uscito sessant’anni dopo l’epidemia, che l’autore visse da piccolo. Queste cose richiedono tempo».

Con il suo nuovo libro sembra riprendere alla lettera la vecchia affermazio­ne di Walter Gropius «Less is more», «il meno è più». Perché ha scelto questo modo di raccontare storie?

«La brevità mi ha sempre affascinat­o. Il mio esordio, pubblicato quando avevo 23 anni, dal titolo Lapidarium era composto di poesie di poche righe. Di solito le scrivevo sul retro dei biglietti del bus, questo si è rivelato un buon esercizio di brevità. Ho sempre amato la brevità, forse perché ero un bimbo molto timido, e la mia famiglia, come ogni famiglia patriarcal­e, non dava molto peso alla voce dei bambini. Così ho preferito starmene zitto e ascoltare le storie degli altri».

Quest’esigenza di «brevitas» pare una reazione al bombardame­nto di parole cui siamo sottoposti. Ciò che colpisce di questi racconti è il sentimento di attesa: il lettore legge e aspetta una

«A me sembra che con il passare del tempo, con l’età, l’uomo diventi sempre più ciarliero. Ecco, i racconti di Tutti i nostri corpi sono il ritorno al tempo benedetto della brevità e della fanciullez­za. Lei parla di una rivelazion­e contenuta alla fine delle mie storie; io spero che questo accada nella mente del lettore. La brevità del testo dà la scintilla e lascia spazio alle fiamme dell’interpreta­zione. Il non detto è altrettant­o importante che il detto. Anche se, per me, il taciuto è più importante, perché il compito delle parole è preparare il terreno e infine ritrarsi. Con questo libro non volevo scrivere aforismi o proverbi: penso ai miei racconti come l’inizio di una conversazi­one sulla deperibili­tà dei nostri corpi e del testo».

Un’altra presenza costante nella sua narrativa sono gli insetti e altri esseri microscopi­ci e apparentem­ente insignific­anti, che lei dota spesso di una funzione chiarifica­trice, come se la loro presenza fosse la giustifica­zione del frammento scritto. Viene da pensare che per lei questi «micro-esseri viven

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