Corriere della Sera - La Lettura
La scelta di Styron L’orrore si può scrivere
Nel 1979 l’americano William Styron osò l’inosabile: narrare in un romanzo Auschwitz, quindi il Male, pur non essendo un sopravvissuto alla Shoah. Osò, appunto, e aveva ragione: «La scelta di Sophie» è un libro importante. Ecco perché
Che strazio le prefazioni. È così imbarazzante mettersi a pontificare su un romanzo che il lettore non ha ancora avuto modo di assaggiare. Ti toccano gli onori di casa, senza peraltro averne diritto né titolo: in fondo sei solo un amico di famiglia, un habitué, alla peggio un semplice imbucato.
Vuoi mettere essere relegati qui, in appendice. Una posizione decisamente più congrua e rilassante da cui godere il placido, sterminato panorama concesso ai posteri. Se il lettore è stato onesto e non ha barato, ora siete alla pari, e a te non resta che parlargli con schiettezza del libro che ha appena finito di leggere. Tranquillo, dev’essergli piaciuto parecchio, altrimenti nemmeno ti ascolterebbe.
Vorrei sfruttare fino in fondo tale privilegio logistico, confidando che il lettore conosca oramai lo straziante mistero di Sophie, così pudicamente, ostinatamente, astutamente custodito dall’autore per seicento e passa pagine. Del resto, spero che frattanto il suddetto lettore abbia avuto modo di digerire una verità se possibile ancora più struggente: a eccezione di Stingo — il narratore-testimone-protagonista — gli eroi della Scelta di Sophie ( Sophie’s Choice, 1979) di William Styron sono tutti morti.
E nel dirlo, intendo proprio tutti. Non solo i genitori, il marito, i figli di Sophie, ma Sophie stessa, per non dire di quel pazzo furioso di Nathan Landau, della pittoresca affittacamere Yetta Zimmerman e della vecchia cara Brooklyn di cui lei è il simbolo.
Viene da chiedersi se basti questo a spiegare il tono che domina il romanzo sin dalle prime battute: al netto della caustica ironia styroniana, esso tradisce un non so che di desolato, funebre, e persino postumo, se mi si passa il termine.
Per evocare gli anni lontani in cui il narratore lascia la casa avita alla volta di New York, Styron attinge senza ritegno ai propri ricordi. A costo di indispettire gli zelanti custodi del credo formalista, vorrei dire che stavolta sarebbe miope non considerare adeguatamente la promiscuità tra Scrittore e Narratore; è dunque da sciocchi non rilevare quanto Stingo somigli come una goccia d’acqua al giovane Styron: ossia al futuro autore di Un letto di tenebre ( Lie Down in Darkness, 1951) e delle Confessioni di Nat Turner ( The Confessions of Nat Turner, 1967), non a caso, lungo il romanzo, più o meno esplicitamente chiamati in causa; al ragazzo della Virginia, orfano di madre, alle prese con un padre tenero, inetto, intrappolato nelle patetiche ubbie genealogiche del gentiluomo sudista; il giovanotto appena congedato dall’esercito che, pur non avendo mai affrontato un campo di battaglia, ha avuto il tempo di impratichirsi con il terrore della morte; lo squattrinato pomposo intellettuale che, perso l’impiego di redattore presso la McGraw-Hill & Company, è stato costretto a lasciare la costosa Manhattan per la più accessibile Brooklyn. «La mia giovinezza» tiene a farci sapere Stingo all’inizio del suo fluviale memoir «stava attraversando la sua fase più triste» (p. 9). Triste? Perché triste? Eccolo qui, l’umor nero di cui dicevo. In fondo, cosa c’è di triste nell’essere giovani, sani, ambiziosi, americani nel 1947?
Difficile pensare a un luogo che occupi il nostro immaginario in modo altrettanto dirompente — fin quasi a ingolfarlo di immagini e suggestioni — come la New York del secondo dopoguerra: la Babilonia in technicolor degna dell’Atene di Pericle, della Roma imperiale, della Parigi fin de siècle.
Subito ci viene in mente Colazione da Tiffany ( Breakfast at Tiffany’s, 1958): e mica nella squisita trasposizione hollywoodiana ma nella versione originale di Truman Capote, più simile a una favola nera che a una commedia romantica. Del resto, è evidente che quel piccolo capolavoro ha costituito per Styron un modello ineludibile. A pensarci bene e tenendo conto delle differenze del caso, il pretesto narrativo è pressoché identico: un promettente scrittore del Sud si lascia risucchiare dai vortici della bohème newyorchese, e insieme travolgere e tramortire dall’amore per un’eccentrica ragazza dal passato misterioso. Ripeto: l’omaggio è manifesto, quasi pedissequo. D’altronde, Styron non ha mai nascosto una ben riposta ammirazione per il collega coetaneo. Ci mancherebbe altro, parliamo di uno dei grandi stilisti del Novecento americano, tanto dissipatore nella vita quanto severo, raro e costumato nell’arte. E allora dov’e la differenza tra Tiffany e Sophie? Esattamente lì, dove qualsiasi opera narrativa esprime la propria originalità: la voce, il mood, la musica della prosa. Se quella di Capote trasuda nostalgie scapigliate, quella di Styron è cupa e dolente come un sudario.
Vento di morte
Lo sentite soffiare sulla nuca di Stingo? È un vento di morte che viene da lontano e non promette niente di buono.
Ad aprire le danze ci pensa un personaggio tutto sommato minore come Farrell, l’ex capo di Stingo alla McGraw-Hill. Nel congedare il suo pupillo appena licenziato, Farrell, vistosamente alticcio, non trova di meglio che aprirsi confidandogli che ha un figlio della sua stessa età; o, per meglio dire, lo aveva. Eddie, il suo strepitoso ragazzo, era un tipo tosto. Proprio come Stingo coltivava smodate ambizioni artistiche. Proprio come Stingo si è arruolato precocemente nei marines. Proprio come Stingo è stato spedito a Okinawa. La sola differenza è che Eddie non è tornato: a pochi giorni dalla fine della guerra, un cecchino lo ha fatto secco.
Da notare come la vicenda tragica del povero Eddie Farrell colpisca Stingo in modo personale: «Mi sembrava che Eddie si fosse immolato sul suolo di Okinawa perché io potessi vivere, fare lo scrittore» (p. 36). Immagino che si tratti della più classica sindrome del sopravvissuto, il senso di stupore, sollievo e colpa che dopo un po’ coglie chiunque ha salvato le penne per il rotto della cuffia e per puro caso: un sentimento esacerbato dal pensiero non meno sfibrante di coloro che non hanno avuto la stessa fortuna. Tutto questo per dire che quando Stingo giunge a Brooklyn è un sopravvissuto, e — come ben presto scopriremo — non è il solo.