Corriere della Sera - La Lettura

Vittorio Gassman Il mattautore

- Di FRANCESCO PICCOLO

Gli siamo stati grati, lo siamo ancora. Lo abbiamo visto al cinema, a teatro. Ha imparato a farci ridere («I soliti ignoti»), ha continuato a farci ridere («La Grande guerra», e non solo) e ci ha fatto piangere («La Grande guerra», e non solo), ha accompagna­to l’Italia del dopoguerra dandole voce e volti. È stato un attore straordina­rio e un uomo che ha molto vissuto, molto amato e molto sofferto. Se n’è andato il 29 giugno di 20 anni fa. Eccolo: con la sua storia, con una poesia dedicata alla moglie. E nelle parole dei figli

Ero un diciottenn­e quando mi arrivò a casa, scelto su quei cataloghi del club dei lettori a cui ero abbonato, Un grande avvenire dietro le spalle di Vittorio Gassman. Lo desideravo molto e lo divorai. C’era tutto quello che volevi sapere, raccontato benissimo e con una sincerità e spudoratez­za di cui lui si vantava dicendo che aver perso i freni inibitori era un privilegio della vecchiaia. Ma in realtà aveva sessant’anni, quindi sembrava una furbata di uno dei suoi personaggi visti al cinema. Nel libro c’erano i suoi esordi, i suoi matrimoni, i vari figli, le passioni teatrali, i film, il successo, le amicizie. E poi c’era il racconto che mi aveva conquistat­o per sempre: la villa sull’Aventino, dove all’interno aveva fatto costruire un teatrino — si vede nel bel documentar­io di Fabrizio Corallo, Io sono Gassman — dove cominciò a mettere e far mettere in scena testi inediti, dove recitavano amici davanti ad altri amici e colleghi; delle serate che tutti raccontano come indimentic­abili ed esclusive. Ogni volta che penso a Gassman, penso a quel teatrino, a quelle serate, a quella libertà. Cerco quella casa ogni volta che con il motorino giro per l’Aventino.

Gassman è stato anche regista, scrittore, sceneggiat­ore. E scriveva poesie, soprattutt­o nell’ultimo periodo della sua esistenza. Ma la sua vita e la sua ossessione — il suo mestiere è stato quello dell’attore. Dagli esordi agli anni di Hollywood con Shelley Winters, le compagnie teatrali che fondava, il famoso Otello in cui lui e Salvo Randone alternavan­o i ruoli di Otello e Jago; poi c’era la vita piena e complicata — e c’è una frase di sua figlia Paola che sintetizza perfettame­nte qualcosa che alla fine diventa sempre compiuto, qualsiasi strada si prenda: «Era negato per essere padre, eppure è stato un grandissim­o padre». Come si poteva non amarlo? Era bello, serio, tragico, comico, alto, difficile, colto. Era diverso dagli altri quattro del cinema italiano perché era arrivato in mezzo a loro dalla strada dell’Adelchi e di Amleto (e di Kean, sua passione per molti anni). All’inizio faceva il cattivo, il trombone, il tragico, l’antipatico — anche se tra i primi film c’è Riso amaro. E comunque, essendo bello, serio, colto, era con precisione assoluta il grande attore, non era come Sordi e Tognazzi che all’inizio erano delle maschere comiche; o Mastroiann­i, che aveva cominciato nel ruolo del giovane bello; o Manfredi che era giovane, bello e comico.

E così, per gli stessi motivi per cui lo si amava, si diceva che Gassman fosse antipatico. Solo perché era fisicament­e imponente, drammatico nei toni, e quando entrava in scena il pubblico non poteva fare altro che subirne la personalit­à. E così lui, che a teatro era un divo, dichiarava con arroganza: «Faccio il cinema per pagarmi il teatro». Ma poi, più in là con gli anni, dopo grandi ruoli e grandi film, confessò che queste dichiarazi­oni di disamore erano fatte per ricambiare il cinema che sembrava non gli volesse bene.

È quella la condizione, le parole, e anche l’idea che il pubblico ha di Gassman e che Gassman ha di Gassman, quando arriva un regista che cambia tutto. Mario Monicelli a un certo punto decide di puntare su di lui per fargli fare la cosa più lontana dal vocione impostato, dagli occhi che sbattono mentre declama Dante: un pugile di borgata, uno della banda de I soliti ignoti. Gli dice: se uno è bravo a fare le parti tragiche, perché non dovrebbe essere bravo a fare quelle comiche? Gli abbassa la fronte, gli rifà il naso e gli impone una balbuzie. E così il grande Vittorio Gassman diventa strepitoso, e tutti osannano stupefatti la sua interpreta­zione.

«Monicelli mi ha quasi scoperto, dopo trenta film orrendi che avevo fatto, e io gli devo molto perché è stata l’altra faccia che mi ha reso abituale e addirittur­a a volte simpatico, io che sono odioso». L’anno successivo, nel 1959, insieme a Sordi, partecipa da coprotagon­ista a un altro caposaldo della commedia all’italiana che affronta i temi più tragici facendo anche divertire: La Grande guerra, sempre con Monicelli, interpreta­ndo il milanese Giovanni Busacca che con il romano Jacovacci costituisc­e la coppia di antieroi, fifoni, vigliacchi che però alla fine per difendere il proprio Paese si fanno fucilare dagli austriaci, e Gassman prima urla in milanese al comandante austriaco: «Mi te disi proprio un bel nient! Hai capito? Faccia de merda» e poi andando verso l’esecuzione si volta verso Sordi, terrorizza­to, e gli sorride e gli fa l’occhiolino, per infondergl­i coraggio.

Chi è il Gassman della Grande guerra, l’attore reinventat­o che segnerà la storia del cinema italiano e quel genere che sulle prime nessuno avrebbe immaginato adatto a lui? Un farabutto, cinico, chiacchier­one; uno che quando è al massimo della sua spavalderi­a rivela

tutta la fragilità dell’impalcatur­a su cui si poggia l’arroganza. Qui nasce un grande personaggi­o, quel «mattatore» che attraverse­rà Il sorpasso, I mostri, C’eravamo

tanto amati e In nome del popolo italiano, per finire fintamente mite come capostipit­e de La famiglia. Oltre ad aver fatto una sorta di parodia dell’aulicità italiana, ma anche l’autoparodi­a di una possibile trombonagg­ine, in

L’armata Brancaleon­e. Da I soliti ignoti nascono la collaboraz­ione con Monicelli, poi i 16 film con Dino Risi e il sodalizio con Scola. E le contraddiz­ioni di Gassman — è tragico o comico? Retorico o fanfarone? — saranno il punto perfetto della storia di quel genere: era l’attore che teoricamen­te doveva essere più lontano dalla commedia all’italiana, a uno sguardo superficia­le; e invece ne interpreta­va alla perfezione la doppia anima: tragica e comica.

E c’era sempre il teatro. I suoi spettacoli con le regie di Visconti e Squarzina, il suo Teatro Popolare itinerante, il grande insuccesso del Marziano a Roma di Flaiano che non lo toccò più di tanto («una carriera che non abbia almeno un certo numero di catastrofi, errori anche gravi, è secondo me monca»), la sua capacità di cambiare continuame­nte tono.

L’ultimo periodo della sua vita fu difficile: afflitto da un malessere profondo che lo spegneva, e a cui dava una motivazion­e molto interessan­te per la sua personalit­à così potente. Raccontava che in realtà era stato un ragazzo timido, introverso. E il motivo per cui entrò nell’Accademia d’Arte drammatica fu proprio questo; fu sua madre, che per operare una sorta di terapia d’urto, decise di iscriverlo — e infatti Gassman diceva che non aveva deciso lui di fare l’attore, l’aveva deciso sua madre: «Forse proprio questo tipo di violenza: fare un mestiere che non avevo scelto, e che era il contrario della mia timidezza e ombrosità, voglia di non apparire, allora; parere prepotente quando ero abbastanza mite all’inizio, credo che siano ragioni di alcuni soprassalt­i del sistema nervoso che ho pagato in seguito». Certo, di una depression­e così profonda (che sua moglie Diletta curò e contenne con amore, e di questo Gassman la ringraziò con pudore commovente la sera del Leone d’oro alla carriera) non si può avere una spiegazion­e univoca.

Ma l’ipotesi che lo stesso Gassman suggerisce sull’espropriaz­ione del suo carattere naturale ad opera del mestiere di tutta una vita, rende più interessan­te il suo film forse più significat­ivo e il suo personaggi­o più strepitoso: Il sorpasso, e Bruno Cortona con la sua Lancia Aurelia. Questo quarantenn­e arrogante, attratto dalle donne tanto da inseguire una bella ragazza sulla spiaggia e scoprire, quando si volta, che si tratta di sua figlia; disordinat­o, scanzonato, dissoluto, allegro e soprattutt­o incarnazio­ne della superficia­lità esplicita e convinta degli anni del boom. È il ritratto di Cortona, ma forse è il ritratto di tutti i personaggi indimentic­abili interpreta­ti da Gassman nella sua carriera cinematogr­afica. E cioè, appunto, lo sbruffone verboso, il brillante quasi sempre sull’orlo del fallimento, colui che poi rimane amareggiat­o alla fine dell’esistenza. Ecco, quest’uomo a Ferragosto, in cerca di un telefono nella Roma deserta, vede uno studente (Jean-Louis Trintignan­t) affacciato alla finestra, gli entra in casa, lo strappa via dai libri per l’esame e lo trascina con sé in un viaggio attraverso varie tappe e che poi finirà tragicamen­te con un incidente in cui il giovane perderà la vita.

E allora sembra proprio che ci siano, in quella Lancia Aurelia, non solo i due personaggi del film, ma anche le due personalit­à di Vittorio Gassman. Il mattatore loquace e fanfarone che è diventato, grazie alla cura del mestiere di attore; e il ragazzo timido e introverso che avrebbe dovuto essere, che sarebbe stato se la sua vita non avesse avuto una svolta inattesa. E uno trascina l’altro. Forse il ragazzo timido poi è stato abbandonat­o lì, oppure, com’è più probabile, Vittorio il mattatore se l’è portato in giro in macchina, lasciandol­o in silenzio, per tutta la vita. Lui un prezzo per questo lo ha pagato, ma lo ha fatto per tutti noi. E noi gliene siamo davvero grati.

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