Corriere della Sera - La Lettura

Pronto, Charlie Parker? Un secolo di jazz e genio

Il geniale sassofonis­ta nacque un secolo fa, il 29 agosto 1920. Sarebbe morto a 34 anni ma fece in tempo a rivoluzion­are la musica. Ora un’intervista telefonica ritrovata precisa alcuni aspetti della sua arte: come il debito nei confronti della classica

- Di HELMUT FAILONI con un articolo di RICCARDO CHAILLY

Appartamen­to a piano terra. Numero civico 151 di Avenue B, zona East Village a Manhattan, New Yo r k . Dopo u n p r i mo squillo di telefono, si sente rispondere la voce di una bambina, che ci immaginiam­o tenere la cornetta ben stretta, con entrambe le mani. «Hello?». Dall’altra parte si sente invece la voce impostata di Leigh Kamman, leggenda delle trasmissio­ni radiofonic­he di jazz negli Stati Uniti. Chiede alla bimba se è effettivam­ente casa di Charlie Parker e se può parlare con il suo daddy. Nello studio di Kamman la luce rossa è accesa, siamo in diretta. Il sassofonis­ta si fa passare il telefono dalla piccola Kim.

Il canto degli uccelli

È l’autunno del 1952, Parker era già Parker, anzi Bird, come preferiva farsi chiamare. Uccello. Perché amava gli uccelli. La loro libertà, le loro voci. Gli piaceva esercitars­i con il sassofono all’aperto, nei parchi, e fare a gara con la rapidità del loro canto. Qualcuno fa risalire la predilezio­ne di Parker per la velocità negli assolo proprio a quelle gare. Nel 1948 compone Constellat­ion, usando il nome dell’aereo più veloce di quegli anni. Tanti suoi brani sono però soprattutt­o a tema volatile: Ornitholog­y, Chasin’ the Bird, Yardbird Suite, Bird of Paradise. E il locale che gli viene dedicato a New York nel 1949 si chiama Birldland.

L’anno dopo quel 1952, Parker avrebbe inciso dal vivo un nuovo capolavoro in quintetto, Jazz at the Massey Hall insieme a una formazione irripetibi­le: Charles Mingus, Max Roach, Bud Powell e Dizzy Gillespie. Due anni dopo, il 12 marzo 1955, Bird sarebbe morto sul divano della baronessa Pannonica de Koenigswar­ter — mecenate che aiutò diversi musicisti jazz (Thelonious Monk le dedicò il brano Pannonica) — mentre rideva guardando alla television­e le gag di un comico. Il coroner, il dottor Robert Freyman, quando esamina il corpo di Parker, annota che è un uomo di «circa 53 anni» e che è morto di polmonite. Parker ne ha invece una ventina di meno, solo 34.

L’età sbagliata dal coroner

Quando viene intervista­to da Kamman, ne ha dunque 32. Al telefono è cordiale, ma la voce è impastata e rauca, al punto che il conduttore gli chiede prima di salutare i radioascol­tatori per bene, con un hello vigoroso, e poi di parlare più vicino alla cornetta, perché si sente male. Quest’intervista, finora inedita e ritrovata nell’anno del centenario della nascita di Parker (29 agosto 1920), nell’archivio del Leigh Kamman Legacy Project — che l’ha messa a disposizio­ne degli appassiona­ti su YouTube — sebbene non sia lunga (5 minuti), è comunque rivelatric­e del pensiero parkeriano. Quando per esempio gli viene chiesto quale musica gli piaccia, Parker passa subito alla classica. «Il mio compositor­e preferito in assoluto è Béla Bartók», sentenzia. Poi cita Igor Stravinski­j, elencando fra l’altro anche le partiture da lui preferite, Le Sacre du printemps, L’Oiseau de feu, l’Historie du soldat, Petruška… Kamman con ogni probabilit­à non è un conoscitor­e di classica, perché annuisce soltanto e inframmezz­a con degli «ah» di stupore l’elenco di Parker, senza fargli ulteriori domande.

«Mi prenda come un bambino»

Ignora senza dubbio, per esempio, che Parker voleva prendere lezioni da un autore dell’avanguardi­a come Edgar Varèse (anche Frank Zappa, anni più tardi, divenne devotissim­o del compositor­e francese). Parker lo seguiva per le vie del Greenvich Village cercando il coraggio di fermarlo. Come John Coltrane, anche Bird aveva canalizzat­o tutto il suo genio all’interno del sassofono e voleva imparare a scrivere musica. Fu lo stesso compositor­e a ricordarlo: «Parker mi propose: “Mi prenda come prenderebb­e un bambino e mi insegni la musica. So soltanto scrivere per una voce sola. Voglio scrivere partiture orchestral­i. Le darò qualsiasi somma. Farò il domestico per lei. Sono un bravo cuoco”. Gli dissi di telefonarm­i dopo Pasqua ma se ne andò prima».

«Un giovane bravo di nome Chet»

Tornando all’intervista ritrovata di Kamman, Parker quando arriva a parlare di jazz, dice di essere stato colpito molto dal talento di alcuni giovani: il trombettis­ta Clifford Brown, l’altista Frank Morgan, un batterista di cui ricorda solo il soprannome, Brownie, e che diventerà un rompicapo per gli studiosi di jazz che vorranno dargli a tutti i costi un nome e un cognome. E, infine, cita un giovane bianco, ascoltato in California: tale Chet Baker. Il quale, molti anni dopo, in una sua biografia ( La lunga notte di un mito di James Gavin, Baldini & Castoldi, 2002), avrebbe raccontato: «Bird era un musicista perfetto e, anche se sniffava cucchiaiat­e di roba e beveva litri di Hennessy, sembrava che gli facesse poco o niente». Parker morì non soltanto perché il suo fisico era irrimediab­ilmente distrutto da alcol ed eroina (al suo pusher di fiducia dedicò il brano Moose the Mooche) ma morì anche per una vita disperata, per le umiliazion­i delle discrimina­zioni razziali. La sua parabola artistica e la sua tormentata biografia — scrive Leonard Feather all’indomani della morte – indissolub­ilmente legate, sono diventate ben presto leggenda, una leggenda tragica, quella dell’arte che raggiunge le vette del sublime attraverso la dannazione, com’è stato per Poe, van Gogh, Verlaine e per altri «maledetti».

Un lupo solitario

Wilfrid Mellers definisce Parker un «lupo solitario», che con la sua musica «parlava sempre solo e soltanto a sé stesso», mai al pubblico. E la parola «genio» nel jazz per lo studioso è appropriat­a unicamente per Bird e Louis Armstrong. Il primo è il supremo maestro dei nevrotici anni Quaranta, il secondo quello dei ruggenti anni Venti. Al jazzman divertente si sostituisc­e così l’immagine di quello incompreso. C’è un cambiament­o radicale nel jazz che fino a qualche anno prima era anche e soprattutt­o musica da ballo: con l’avvento del bebop esso perde definitiva­mente la sua funzione coreutica.

La musica dei selvaggi, come è stato considerat­o il jazz ai suoi albori, con il bebop — che nasce con Parker come atto di ribellione dei neri, sotto il doppio segno della sperimenta­zione e della competizio­ne — diventa così la musica dei pazzi. Scriveva sul «New York Post» il poeta Langston Hughes: «Il bop è la conseguenz­a di giorni scuri. Per questo la vera musica bop è esasperata, selvaggia, frenetica, pazza e chi non ha conosciuto giorni scuri non la può capire». La prima registrazi­one da leader Parker la fa, a metà anni Quaranta, per la Savoy con al suo fianco un timido e impacciato trombettis­ta di 19 anni, Miles Davis. I brani erano

Ko-Ko, Billie’s Bounce e Now’s The Time.

La registrazi­one shock

Dopo una registrazi­one shock di Lover

Man nel 1946 in cui l’assolo si fa pura vertigine, diabolico, ultraterre­no, perturbant­e, un incubo in piena, Parker è ricoverato per 6 mesi al Camarillo State Mental Hospital, da dove esce con un brano nuovo in tasca: Relaxin’ at Camarillo. Il bollettino del Bellevue Hospital lo descrive invece come una persona di «intelligen­za media alta, personalit­à ostile ed evasiva con manifestaz­ioni di pensiero paranoico e tendenze suicide». Bird fa pensare molto a Il persecutor­e, il racconto che Julio Cortázar gli dedica nel 1959, in cui il protagonis­ta alla fine si confonde e si identifica con la propria preda.

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