Corriere della Sera - La Lettura
Fu più amico che padre Conosceva i propri limiti
P«Anomalo. Aveva 23 anni, troppo giovane per essere padre. È stato assente nei miei ricordi infantili. Mamma, Nora Ricci, fu intelligente nel non farmi mai notare le mancanze. Ho riguadagnato il rapporto da grande, quando abbiamo cominciato a parlare, soprattutto di teatro. Era dedito alla sua professione».
Quando si separarono i suoi?
«Quasi subito. Si lasciarono dopo un viaggio di riconciliazione a Capri, si guardarono e risero. Una risata liberatoria. Ma l’affetto tra loro non venne mai meno. Alla fine dico: era negato per fare il padre, anche nei momenti migliori. Però aveva una dote: quella di riconoscerlo. E quindi lo diventava, un grande padre. Con Alessandro era più maturo, con Jacopo lo era troppo. Tra noi fratelli ci sono decenni di distanza: Alessandro ha la stessa età di mia figlia, Jacopo è più piccolo del mio secondo figlio».
Siete legati da un rapporto fraterno?
«Fraterno no, il legame era lui. I Natali non li passavamo tutti insieme, alcuni sì, ma insomma... Papà non amava le tradizioni. Papà e io diventammo più amici che padre e figlia. Diceva che avevo griglie difensive. Ero giovanissima, in Accademia d’arte drammatica si creavano forme di conoscenza. Ero abbastanza rivoluzionaria. Ho cominciato la professione nel ’68: ero una sessantottina, mi ribellavo a essere trascurata da mio padre, volevo cambiare cognome. Alessandro poi l’ha fatto. È una storia tutta strana, Alessandro è tornato alla vera doppia n dei Gassmann per rivendicare origini ebraiche che però sono della nonna Luisa, mio nonno era arianissimo».
Scrisse che in lei vedeva la madre.
«In fondo sono l’unica che ha conosciuto la sua famiglia d’origine: non mio nonno, cioè il padre tedesco che Vittorio perse quando aveva 16 anni. Era venuto in Italia col fratello per cercare due spose italiane e scelsero due sorelle. Poi c’era la sorella di Vittorio, Maria Luisa, detta zia Marì, più grande di cinque anni, aveva velleità artistiche, fu sacrificata».
È vero che da giovane soffriva di sonnambulismo?
«Sì, fino a 30 anni. Poi sempre meno. Nel dopoguerra il teatro si faceva a Milano, abitavano tutti nello stesso palazzo, papà, Ernesto Calindri, Tino Carraro, Carlo Dapporto. Papà li spaventava col sonnambulismo. Il matrimonio con mamma fu costellato da alzate notturne negli alberghi. Era un disturbo nervoso che la mamma avrebbe dovuto curare, invece gli faceva fare piccole incombenze, come trasportare mobili: papà faceva traslochi nell’incoscienza. L’iter del sistema nervoso mostra che ha avuto un finale nella depressione. È passato da una introversione infantile-adolescenziale a uno stato di euforia ed esaltazione, a causa di un mestiere che decise sua madre per lui. Lui voleva essere avvocato o scrittore. Quanto a me... sono bisnonna di un bimbo nato in Giappone!».