Corriere della Sera - La Lettura
Il virus dell’Africa
Finora nel continente più povero Covid-19 non ha prodotto gli effetti devastanti che si temevano, anche per l’età giovane della popolazione e la sua minore mobilità. Rischia però di essere molto pesante l’impatto economico. Quanto alle ricadute politiche, il lockdown potrebbe favorire i governi autoritari che amano limitare i diritti dei cittadini. Oppure provocare rivolte popolari capaci di destabilizzare i regimi di tendenza illiberale
Quando l’epidemia di Covid-19 ha preso il via in Cina, la reazione quasi immediata è stata per molti quella di prevedere l’approdo del virus anche in Africa, il paziente fragile, dove avrebbe inevitabilmente prodotto uno scempio. Al continente — peraltro origine di altre malattie o epidemie maledette, dall’HivAids a Ebola, e che invece in questo caso sembrava più una tappa di coda del coronavirus — si guarda prevalentemente con occhio scettico e catastrofico. Non si è dovuto attendere molto per avere i primi riscontri. L’Egitto ha fatto da apripista dei contagi, già il 14 febbraio, seguito meno di due settimane dopo dalla prima infezione a sud del Sahara, nella popolosa e preoccupante Nigeria. Tre mesi dopo, il Covid-19 era presente in tutti i cinquantaquattro Paesi africani e Sudafrica, Egitto, Algeria e Nigeria risultavano i Paesi più colpiti.
Eppure a pensar male a volte non si indovina. Almeno per ora, ed è giusto essere cauti, dell’attesa ondata di diffusione esponenziale della pandemia in Africa non abbiamo visto traccia. Al contrario, quando si raffronta il continente con altre aree del globo, la trasmissione risulta essere più lenta: porta a una quantità inferiore di casi, a infezioni meno gravi e a un numero di decessi decisamente limitato.
L’anomalia africana
All’11 giugno, in tutta l’Africa risultavano circa 150 mila contagiati, ovvero il 2 per cento degli oltre 7 milioni di casi registrati a livello globale. Molto distante dalla quota che in proporzione «spetterebbe» agli africani, che rappresentano ben il 17 per cento della popolazione mondiale. Non molto diversa la situazione delle vittime, circa 5.700, pari a meno dell’1,5 per cento degli oltre 412 mila morti che il Covid-19 ha mietuto in tutto il mondo.
È vero che uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità-Africa teme e ipotizza che si possano raggiungere i 150 mila decessi nel corso del 2020, ma la previsione, in sé drammatica e peraltro ancora lontana dalle tendenze attuali, non deve fuorviare. Con un andamento «all’italiana» — abbiamo avuto oltre 30 mila morti in 3 mesi, su una popolazione di 60 milioni circa — i decessi africani arriverebbero ben più in là, da qualche parte tra i 600 mila e i 2 milioni. Altre cifre. Ad oggi, in altre parole, sul piano delle statistiche l’Africa è un’anomalia nella pandemia.
Ma come è possibile tutto questo? Fermo restando che sono molti gli aspetti del Covid-19 e delle sue conseguenze a cui stiamo ancora cercando di dare un senso, occorre partire da due elementi. Una prima questione è se, nel caso dell’Africa, si tratti di un virus «contenuto» oppure di un virus «non pervenuto». C’è da riconoscere un successo nel contenerne la propagazione, oppure da dar conto di un fallimento nel rilevare la diffusione dell’epidemia?
I Paesi africani hanno peraltro beneficiato del fatto di essere stati tra gli ultimi approdi del coronavirus, il che ha permesso loro di non perdere tempo nel chiudere i confini e approntare misure di
lockdown; il Sudafrica lo ha fatto prima ancora di registrare il primo morto. Ci sono pochi dubbi sul fatto che in Africa si verifichi un’ampia sotto-notifica dei casi di contagio, ma questa non può essere l’unica spiegazione. Un Paese capace di un monitoraggio efficace come il Sudafrica dovrebbe altrimenti mostrare un andamento dell’epidemia non troppo diverso da quello di nazioni più colpite, ma non è così. I suoi 55 mila contagiati (dati al 11 giugno) rappresentano solo un quarto dei 235 mila dell’Italia, e i suoi 1.200 morti equivalgono a poco più di un trentesimo di quelli del nostro Paese
Barriere demografiche e ambientali?
Questo ci porta alla seconda questione. Possibile che ci siano specificità di carattere sociale o ambientale che stanno dietro all’anomalo andamento pandemico africano? La risposta è sì. È altamente probabile che la minore diffusione e vulnerabilità al virus nella regione siano almeno in parte legate ad aspetti quali la struttura demografica delle società africane (notoriamente molto giovani), la scarsa densità media di popolazione (che facilita il distanziamento sociale nelle zone rurali, se non in quelle urbane), una mobilità degli africani più limitata rispetto a quella in altre aree del mondo (e quindi un contagio che viaggia di meno), un clima caldo (che sembra indebolisca il virus) o le esperienze pregresse degli africani nel combattere altre malattie ed epidemie.
L’illustrazione più eclatante è evidentemente quella riguardante la giovane età media delle popolazioni del continente, che sono composte per oltre la metà da bambini e da ragazzi di non oltre vent’anni (nei Paesi che hanno economie avanzate la percentuale è del 22%) e solo per il 2% circa da ultrasettantenni.
Al di là dei dati epidemiologici relativamente favorevoli, tuttavia, è chiaro che l’impatto sanitario del Covid-19 in Africa risente e risentirà anche di altro. Pur in presenza di un minor numero di casi, ad affrontare il virus si trovano strutture e sistemi sanitari enormemente più fragili rispetto a quelli di Paesi avanzati o emergenti. Su scala continentale, la media è di un medico ogni 5 mila abitanti (in Italia siamo a uno ogni 250), per non parlare delle sparute disponibilità in termini di posti-letto in terapia intensiva o di ventilatori polmonari. E come una coperta troppo corta, concentrare le limitate risorse sanitarie nella lotta al nuovo virus rischia di lasciare campo libero a malaria, poliomielite e altre sfide che in Africa restano ancora irrisolte.
Il contagio economico
Più ancora che l’impatto sanitario, tuttavia, sono gli effetti indiretti della pandemia a essere i più duri e pesanti per l’area subsahariana. È da questo punto di vista che quella del Covid rischia di rappresentare «la crisi di troppo», come suggerito da una preoccupata nota interna del ministero degli Esteri francese, che aggrava fragilità strutturali già esistenti di carattere economico, sociale e politico. La pandemia ha iniziato a colpire le economie africane prima ancora che il virus atterrasse nel continente, attraverso il forte calo della domanda internazionale di materie prime e prodotti agricoli, lo stop degli investimenti esteri e la fuga di capitali, il limbo in cui sono immediatamente entrati settori come turismo e trasporti aerei, il crollo delle rimesse da parte della diaspora. Poi si sono aggiunte le misure di lockdown adottate dagli stessi governi africani. Tutti motivi di perdita di lavoro e di ossigeno per le economie della regione che, nonostante i progressi dei due decenni passati, resta la più povera del pianeta. L’Africa subsahariana chiuderà il 2020 con la sua prima recessione da 25 anni a questa parte, secondo la Banca mondiale, che per ora prospetta una contrazione del Pil regionale all’interno di una forchetta compresa tra meno 2,1 e meno 5,1%.
Si tratta di dinamiche in parte simili a quelle che stiamo vivendo noi nei Paesi occidentali, ma non del tutto sovrapponibili. In Africa, il dilemma che ha contrapposto salute e economia assume un significato particolare. Nel continente si muore di lockdown e povertà prima che di Covid-19: per tantissimi africani se non si lavora di giorno non si mangia alla sera, e lo smart working è solo un sogno lontano. Quello delle crisi alimentari è un pericolo ancor più reale per aree che già sono alle prese con altre difficili minacce, come l’insicurezza generata dai conflitti nel Sahel o l’invasione delle locuste sulle sponde orientali del continente.
Salute o elezioni?
Ma le implicazioni non-sanitarie del Covid-19 in Africa non riguardano solo lo sviluppo economico. Toccano anche l’evoluzione politica della regione. Sappiamo bene che è difficile rispondere alla pandemia in modo democratico.
Dall’Italia al Giappone, proclamare lo stato di emergenza o governare temporaneamente per decreti è stata una scelta forzata per molti Paesi. Ma per quelli africani potrebbe essere poi più difficile fare marcia indietro (o più facile evitare di farlo, a seconda dei punti di vista) verso uno Stato di diritto e pratiche democratiche che già sono relativamente poco radicati.
Il rischio è che il Covid favorisca uno scivolamento autoritario — alcuni osservatori hanno già iniziato a parlare di pan
demic backsliding — oltre al consolidamento di regimi già autocratici. I despoti amano il lockdown, che li fa figurare come «dittatori benevoli»: per il bene pubblico, per la salute pubblica, «occorre» dichiarare lo stato di emergenza, è indispensabile governare per decreto, è opportuno rinviare le elezioni, è necessario vietare movimenti e assembramenti così come le attività dei media, il che a sua volta giustifica duri interventi della polizia, oppure il dispiegamento dell’esercito nei centri urbani. Il tutto condito da nuove formule per promuovere sorveglianza e raccolta dati per vie digitali. Il mese scorso, ad esempio, il Burundi ha tenuto una storica elezione presidenziale, ma è anche riuscito a tenere lontani da un voto controverso gli osservatori esteri, o almeno la gran parte di essi, scoraggiati dall’obbligo di una quarantena di 14 giorni.
Sono 16 i Paesi subsahariani che hanno in programma elezioni nazionali per il 2020.
Non è facile decidere che cosa fare. Va privilegiata la partecipazione democratica, mandando comunque gli elettori al voto nonostante il rischio contagio, oppure deve prevalere la difesa della salute pubblica, accettando di rinunciare temporaneamente al diritto di votare? Quale è il male minore? Nei tre mesi passati, alcune capitali hanno deciso di procedere come da programma (non solo il Burundi, anche Mali e Guinea sono andati al voto), mentre ad Addis Abeba si è deciso di sospendere tutto sine die. Quella etiope, in origine prevista per agosto, è senza dubbio la singola consultazione elettorale più importante dell’anno nell’area, decisiva per l’evoluzione della delicata transizione politica che il Paese ha avviato e, di riflesso, per l’intera regione del Corno d’Africa.
Uno scenario opposto
Esiste però anche uno scenario opposto, di destabilizzazione di alcuni regimi autoritari anziché di loro consolidamento. Le sofferenze sociali ed economiche che il Covid-19 farà patire alle popolazioni africane — con il rallentamento della crescita, l’aumento di povertà e disoccupazione, la diffusione dell’insicurezza alimentare — potrebbero gettare nuova benzina sul fuoco di proteste popolari già emerse nel biennio passato, e farle concentrare contro i regimi più chiusi e screditati, come quelli di Stati petroliferi quali Camerun, Gabon o Congo-Brazzaville, in seria difficoltà per il crollo del prezzo del greggio. C’è solo da sperare che, nella misura in cui le difficoltà sociali si trasformeranno in mobilitazione politica per chiedere un cambiamento, questo non avvenga imbracciando le armi e dando vita a nuove insurrezioni violente.