Corriere della Sera - La Lettura
I populisti sono votati anche da elettori estranei alle idee di destra Reynié: sono visti come la forza che può rompere un sistema paralizzato
che molti elettori italiani votano per la Lega di Matteo Salvini, pur dicendo di non riconoscersi in un programma né in un’etichetta di destra. A volte si dicevano addirittura antifascisti e orgogliosi del passato operaio e comunista dei loro padri. Dicevano che avrebbero votato Lega perché non ne potevano più delle ondate migratorie, che portavano modi di vita completamente diversi dai loro. Inoltre si consideravano traditi dalla sinistra ufficiale, che non si occupa più delle situazioni di difficoltà delle persone appartenenti a famiglie operaie e viene ormai vista come legata ai quartieri alti. Mi è parso che quelle persone vedessero nel populismo un modo per prendere le distanze rispetto alla sinistra, senza professarsi di destra.
Qualcosa del genere vale anche in Francia: penso che in profondità il partito di Marine Le Pen continui a essere di destra, ma dal punto di vista dell’elettore deluso può apparire popolare, socialmente aperto e, cosa molto importante, una forza grazie alla quale si può sbloccare la situazione. La sua è un’offerta che io chiamo «la rottura al posto dell’alternanza». Votando per un partito populista antisistema, ci si propone di rompere, spezzare qualcosa, punire chi non vuol sentire ciò che desidera la maggior parte dei governati. È assai significativo l’ostinato rifiuto dei governanti europei di considerare la questione dell’immigrazione. Una parte molto considerevole dell’elettorato ripete: «Non siamo più a casa nostra, non si riesce più a conservare il nostro modo di vivere, le donne vengono molestate, ci sono dispute religiose che prima non esistevano, ci sono problemi di delinquenza». Ma questo discorso non passa, con effetti elettorali devastanti per la sinistra, che ormai ha abbandonato persino la lotta per la laicità contro le influenze religiose dell’integralismo musulmano, forse perché vede l’islam come la religione dei dominati.
Non è che la sinistra abbia deciso di affidare agli intellettuali il compito di reagire agli attuali sentimenti popolari? Come lei ha detto, è stata soprattutto la classe operaia a farsi prendere dalla paura dello straniero, ma contro questa tendenza mi pare che sia in atto da tempo una controffensiva, soprattutto sul tema dell’immigrazione, nel cinema, nel teatro, nella letteratura, nei media, che sono ancora in buona parte la voce della sinistra. Ho la sensazione che i partiti progressisti abbiano quasi rinunciato a battersi sul terreno politico tradizionale e cerchino di vedere se l’opera degli ambienti intellettuali, attraverso i mezzi di comunicazione, possa essere sufficiente a rilanciare le loro idee universaliste.
Può darsi, ma ciò sta rendendo ancor più rapido il crollo della sinistra, perché è l’esatta rappresentazione del progressismo dei quartieri alti. Il discorso di accoglienza verso gli immigrati finisce inevitabilmente per apparire come un rimprovero rivolto al pubblico. Un rimprovero che è davvero difficile da sopportare per le classi popolari, perché le loro esperienze di vita sono diverse da quel che vedono sullo schermo. Si sentono dire: «Pensate di avere un problema di sicurezza? Ma no, non avete un vero problema di sicurezza; la vostra è, principalmente, una sensazione di insicurezza…».
Lei ha il grande merito di aver creato l’espressione «populismo patrimoniale». A suo parere la dimensione immateriale, culturale, svolge un ruolo più importante della dimensione economica e materiale nella progressione elettorale dei nuovi partiti populisti. E ancora: all’interno dell’elettorato dei partiti populisti di destra, le lamentele contro l’immigrazione sono più importanti sul piano culturale che sul piano economico. Cito dal suo libro del 2013: «Lo stile di vita che va difeso non è tanto una cultura nazionale che si vorrebbe vivere e trasmettere, quanto piuttosto un modo di vita che si vorrebbe far perdurare per goderne quanto più a lungo possibile. Non si tratta tanto di un io collettivo, mitico e glorioso, quanto piuttosto di un io privato, domestico e ordinario». Io trovo che quel che diceva allora oggi si sia trasformato in realtà. E tuttavia il concetto di populismo patrimoniale è stato poco ripreso, salvo che in Italia.
Sì. Tuttavia i politologi americani Pippa Norris e Ronald Inglehart, nello studiare l’elezione di Donald Trump, hanno rilevato lo stesso problema. Il loro lavoro dimostra che l’identità è il tema che conta nell’ascesa del populismo, non la disoccupazione o il livello di retribuzione. La determinante più forte è legata al patrimonio immateriale. In Francia mol