Corriere della Sera - La Lettura
Vedi Capri, e poi? Poi muori
Bruce Chatwin lo amava: bene. Pasternak e Nabokov l’hanno oscurato: male. Perché al di là del Nobel vinto, Ivan Bunin, del quale ricorrono i 150 anni dalla nascita, è un autore che merita attenzione. Come rivela «Il signore di San Francisco»
Nel 1978, Bruce Chatwin scrisse una lunga lettera a un amico i ndi a no, c he t r a l ’a l t r o g l i chiedeva consigli di lettura sui più grandi scrittori occidentali di racconti e narrativa breve. L’elenco è perfetto e degno del gusto infallibile di Chatwin, ma l’unico nome che sorprende veramente, tra Flaubert e Turgenev, è quello di Ivan Bunin. La memoria di questo grande scrittore russo, che pure aveva vinto il Nobel nel 1933, doveva già essere alquanto appannata, se Chatwin si affretta ad aggiungere «te lo procuro io», dopo averlo menzionato.
Di sangue nobile, figlio di proprietari terrieri, Bunin fin dal 1920 si lasciò alle spalle l’aborrita società sovietica, e visse da emigrato tra Parigi e la Provenza. Anche prima della rivoluzione d’Ottobre aveva viaggiato molto, in Oriente e in Italia, e molti racconti raccolti in Il signore di San Francisco sono stati a scritti a Capri nel 1911. Di un altro illustre ospite russo dell’isola, Lenin, scrisse che era «un idiota morale fin dalla nascita». Nabokov, molto più giovane di Bunin, avrebbe sottoscritto.
Sul risentito e intransigente anti-bolscevismo di Bunin bisogna leggere le pagine che gli ha dedicato Tzvetan Todorov nel suo ultimo libro, L’arte nella tempesta, dedicato alle reazioni dei grandi artisti russi alla rivoluzione bolscevica. Eloquente fin dal titolo il diario che tenne nel 1918-19, prima di abbandonare per sempre la patria: Giorni maledetti. Bisogna aggiungere che Bunin, con la stessa pulizia morale, avversò il nazismo rischiando in prima persona durante l’occupazione tedesca della Francia.
All’interno della letteratura del Novecento, la sua fisionomia è quella di un galantuomo d’altri tempi (era nato nel 1870), di impeccabile eleganza e disillusa saggezza. Anche la capacità di osservare luoghi e stati d’animo può essere intesa come un fatto morale e artistico insieme. Senza dubbio, l’influenza decisiva per il giovane Bunin fu quella di Cechov, che adorava la sua compagnia e per primo ne intuì il valore. Ma rispetto a quelli dell’inarrivabile maestro, i racconti di Bunin sono caratterizzati non solo da una maggiore varietà di argomenti e situazioni, ma da una tensione lirica che a volte può prendere il passo del poema in prosa, come se, per lo scrittore, non potesse realizzarsi un autentico realismo che non fosse anche un simbolismo, e viceversa.
Tra i libri di racconti di Bunin, forse il capolavoro è Viali oscuri, che è del 1943 e andrà finalmente ristampato anche in Italia dopo molti anni di latenza. Ma Il signore di San Francisco, la raccolta pubblicata a Parigi nel 1922, può vantare risultati di altissimo livello e alcuni esempi davvero eccelsi dell’arte di Bunin, a partire dal racconto che dà il titolo al volume, composto nella tenuta di Vasil’evskoe nell’autunno del 1915. Un brano di alta letteratura che meritò addirittura una traduzione inglese di D. H. Lawrence. Come Thomas Mann aveva intitolato uno dei suoi racconti più celebri Morte a Venezia, così questo di Bunin avrebbe potuto intitolarsi Morte a Capri. Con la differenza che Bunin poco sa del suo eroe, un cinquantottenne di San Francisco che, guadagnato il suo gruzzolo, ha smesso di lavorare e viaggia con la moglie e la figlia tra l’Europa e il Medio Oriente, come tantissimi altri ricchi dei primi vent’anni del Novecento. Non è la psicologia del suo personaggio che gli interessa: la caratteristica più rilevante del Signore di San Francisco sembra quella di assomigliare a tanti altri, fino al suo appuntamento con il destino: la morte per infarto, senza nemmeno tempo di rendersene conto, nella sala di lettura del grande albergo Quisisana di Capri.
È l’inizio del racconto che è formidabile, perché la prima cosa che veniamo a sapere del Signore di San Francisco è che non c’era «nessuno che ricordasse il suo nome, a Napoli o a Capri», e questo anonimato basta a farci entrare nel racconto con un sospetto di fatalità. Bunin procede con grande ricchezza di dettagli, quasi gli ambienti dovessero compensare quel vuoto centrale messo al posto di un eroe. Tutto ci viene mostrato: navi e alberghi di lusso, bauli, facchini, paesaggi e monumenti. L’arte di Bunin somiglia molto più a un mosaico che a un lavoro di tessitura. Ogni particolare è al posto giusto, illuminato dal suo aggettivo più appropriato, e incastonato nell’insieme per passare al seguente, come se le cose fossero destinate a estinguersi non appena lo sguardo del viaggiatore passa oltre.
Ma in una di queste tessere di mosaico, che non ha nulla di diverso dalle altre, mentre il protagonista legge un giornale in attesa che la moglie e la figlia siano pronte per cena, si è annidata la fine, come un serpente tra l’erbetta più rassicurante. Pochi minuti prima, il signore di San Francisco, guardandosi allo specchio, aveva esclamato due volte «che orrore», ma nemmeno questo dettaglio ci aveva offerto un indizio significativo sul piano psicologico. E alla fine, di tutta la minuzia e la precisione descrittiva, quello che rimane nel lettore è un sentimento della condizione umana più poetico che narrativo: nel senso che, nella vita del singolo, Bunin cerca sempre il suono dell’universale, come se ogni singolo personaggio fosse una conchiglia nella quale ascoltare il rumore oceanico dell’umano.
E ugualmente efficaci sono i racconti ambientati all’altro capo della società, nei più miseri villaggi di izbe dove i contadini russi trascorrono la loro esistenza mistica, violenta, alcolizzata. Anche tra questi racconti rurali, tutti più o meno memorabili, c’è una vera perla, Una conversazione notturna, che prende a modello un capolavoro di Cechov, La steppa, per rovesciarlo con un esito diametralmente opposto. Identica è la situazione: un ragazzo che non sa ancora nulla, attento e curioso, ascolta durante la notte passata all’aria aperta storie di adulti, gente del popolo che conosce il mondo e ne ha viste di tutti i colori. Ma in Cechov si tratta di un’iniziazione che va a buon fine, e il viaggio nella steppa, con tutte le sue paure, segna una svolta del destino e l’inizio di una nuova vita. Il ragazzo di Bunin invece è un figlio di proprietari che passa le notti nell’aia con i contadini perché vuole conoscerli da vicino. I contadini gli vogliono bene, lo rispettano, ma il «padroncino», come lo chiamano, non è ancora pronto alla brutalità della vita come si manifesta nelle storie di quegli uomini induriti dalla fatica e dall’esperienza, ai quali la morte non sembra più fare nessuna impressione.
Ci sono storie notturne che illuminano e orientano, e altre che sono solo uno shock, perché le ascoltiamo troppo presto, o troppo tardi. Anche da questi scarti geniali da una tradizione ottocentesca di cui a volte appare l’ultimo inattuale custode, appare evidente la grandezza di Bunin. Se giganti come Pasternak e Nabokov possono averlo offuscato, sarebbe un grave errore scambiarlo per un epigono.