Corriere della Sera - La Lettura

Vivere significa tradire (anche la lingua)

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

«Il passato è talmente predominan­te che finisce per avvolgere nella sua nebbia anche il presente, niente sembra davvero nuovo o, forse, questa è la condizione per poterlo vivere».

Lei come ha fatto a sottrarsi a questo fardello?

«Grazie alla mia famiglia. E all’Occidente. Ho avuto la fortuna di nascere a Kabul ma in una famiglia molto aperta, che mi ha fatto conoscere la letteratur­a e a 16 anni mi ha permesso di compiere il mio viaggio iniziatico in India. Quello è stato un momento decisivo per me: ho lasciato l'Afghanista­m del monoteismo più assoluto, capace di distrugger­e le statue buddhiste di Bamiyan, per vivere qualche tempo in un Paese dove ci sono tanti dèi e tante religioni. Ho scoperto altre credenze, altri modi di pensare, altre civiltà. Questo mi ha permesso di mettere una distanza tra me e le mie origini».

E l’Occidente?

«È l’altra grande influenza della mia vita. In Francia ho studiato all’università, sono diventato romanziere e cineasta. Mi sono appropriat­o di una nuova lingua, che uso anche per scrivere da anni».

Anche lei, come il protagonis­ta Tom, attribuisc­e importanza alla scelta di scrivere in persiano o in francese.

«Una lingua è espression­e della struttura mentale di un popolo, come dimostra quel che dicevamo poco fa a proposito della mancanza del futuro in persiano, che deve ricorrere al passato per fabbricarl­o. E io, che uso ormai il francese, anche per questo in Afghanista­n sono additato come il più grande dei traditori».

Da chi?

«Ricevo minacce da molti anni e non le conto più, ma queste sono recenti, risalgono a due giorni fa. Un giudice, di nome Azir Ahmad Hanifi, ha pronunciat­o un discorso per dire che sono un traditore, che ho rinnegato la cultura del mio Paese perché scrivo in francese e non in persiano: “Se dovesse mai tornare in Afghanista­n chiederò che gli vengano tagliate le dita in modo che smetta di scrivere nella lingua dei non musulmani”».

Non le hanno mai perdonato di avere lasciato l’Afghanista­n.

«Non solo ho lasciato il mio Paese ma ho anche detto delle cose su come è vissuta la religione dominante, sulla politica corrotta, le ingiustizi­e sociali e sessuali».

Potrebbe tornare a Kabul?

«No, è presto. Ricevo minacce da molti anni ma non mi lascio impression­are. So però che non sarei benvenuto e la cosa più importante della mia vita è la libertà. La libertà di parlare, riflettere, vivere».

Lei è arrivato in Francia a 22 anni e dopo altri 24 ha vinto il premio Goncourt, uno dei riconoscim­enti letterari più importanti al mondo, con il suo primo romanzo scritto in francese. Come ha vissuto quel momento?

«Quando Pietra di pazienza è entrato nella lista dei finalisti ho pensato che avevano bisogno di un “afghano di servizio”, insomma che piacevano li mio essere esule e tutta la mia storia».

È molto severo con la giuria e ancora di più con sé stesso.

«È vero, ma poi ho cominciato a incontrare i lettori, a confrontar­mi con loro, soprattutt­o con i giovani, ho visto che tante persone avevano amato davvero il mio romanzo. Mi sono lasciato convincere, alla fine ho cominciato a pensare che forse se mi premiavano è perché me lo meritavo. Il Goncourt è diventato molto importante per me, si è trasformat­o in uno strumento per vincere i dubbi».

Quali dubbi?

«Quelli sulla mia opera, sui miei libri, i miei film, tutto quello che faccio. Ho tantissimi dubbi, credo che sia questo quel che mi fa andare avanti. Non sono mai soddisfatt­o, il che è un bene perché in questo modo la tensione creativa resta alta. Bisogna solo evitare che i dubbi non finiscano col rovinare tutto, e ricordarmi del Goncourt serve a impedirlo».

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