Corriere della Sera - La Lettura
Vivere significa tradire (anche la lingua)
«Il passato è talmente predominante che finisce per avvolgere nella sua nebbia anche il presente, niente sembra davvero nuovo o, forse, questa è la condizione per poterlo vivere».
Lei come ha fatto a sottrarsi a questo fardello?
«Grazie alla mia famiglia. E all’Occidente. Ho avuto la fortuna di nascere a Kabul ma in una famiglia molto aperta, che mi ha fatto conoscere la letteratura e a 16 anni mi ha permesso di compiere il mio viaggio iniziatico in India. Quello è stato un momento decisivo per me: ho lasciato l'Afghanistam del monoteismo più assoluto, capace di distruggere le statue buddhiste di Bamiyan, per vivere qualche tempo in un Paese dove ci sono tanti dèi e tante religioni. Ho scoperto altre credenze, altri modi di pensare, altre civiltà. Questo mi ha permesso di mettere una distanza tra me e le mie origini».
E l’Occidente?
«È l’altra grande influenza della mia vita. In Francia ho studiato all’università, sono diventato romanziere e cineasta. Mi sono appropriato di una nuova lingua, che uso anche per scrivere da anni».
Anche lei, come il protagonista Tom, attribuisce importanza alla scelta di scrivere in persiano o in francese.
«Una lingua è espressione della struttura mentale di un popolo, come dimostra quel che dicevamo poco fa a proposito della mancanza del futuro in persiano, che deve ricorrere al passato per fabbricarlo. E io, che uso ormai il francese, anche per questo in Afghanistan sono additato come il più grande dei traditori».
Da chi?
«Ricevo minacce da molti anni e non le conto più, ma queste sono recenti, risalgono a due giorni fa. Un giudice, di nome Azir Ahmad Hanifi, ha pronunciato un discorso per dire che sono un traditore, che ho rinnegato la cultura del mio Paese perché scrivo in francese e non in persiano: “Se dovesse mai tornare in Afghanistan chiederò che gli vengano tagliate le dita in modo che smetta di scrivere nella lingua dei non musulmani”».
Non le hanno mai perdonato di avere lasciato l’Afghanistan.
«Non solo ho lasciato il mio Paese ma ho anche detto delle cose su come è vissuta la religione dominante, sulla politica corrotta, le ingiustizie sociali e sessuali».
Potrebbe tornare a Kabul?
«No, è presto. Ricevo minacce da molti anni ma non mi lascio impressionare. So però che non sarei benvenuto e la cosa più importante della mia vita è la libertà. La libertà di parlare, riflettere, vivere».
Lei è arrivato in Francia a 22 anni e dopo altri 24 ha vinto il premio Goncourt, uno dei riconoscimenti letterari più importanti al mondo, con il suo primo romanzo scritto in francese. Come ha vissuto quel momento?
«Quando Pietra di pazienza è entrato nella lista dei finalisti ho pensato che avevano bisogno di un “afghano di servizio”, insomma che piacevano li mio essere esule e tutta la mia storia».
È molto severo con la giuria e ancora di più con sé stesso.
«È vero, ma poi ho cominciato a incontrare i lettori, a confrontarmi con loro, soprattutto con i giovani, ho visto che tante persone avevano amato davvero il mio romanzo. Mi sono lasciato convincere, alla fine ho cominciato a pensare che forse se mi premiavano è perché me lo meritavo. Il Goncourt è diventato molto importante per me, si è trasformato in uno strumento per vincere i dubbi».
Quali dubbi?
«Quelli sulla mia opera, sui miei libri, i miei film, tutto quello che faccio. Ho tantissimi dubbi, credo che sia questo quel che mi fa andare avanti. Non sono mai soddisfatto, il che è un bene perché in questo modo la tensione creativa resta alta. Bisogna solo evitare che i dubbi non finiscano col rovinare tutto, e ricordarmi del Goncourt serve a impedirlo».