Corriere della Sera - La Lettura

Ovunque tu vada l’Albania ti segue

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Elvis Malaj vive nel nostro Paese da 15 anni e scrive nella nostra lingua. Il suo romanzo recupera personaggi e situazioni del volume d’esordio: si intitola «Il mare è rotondo» perché c’è chi parte ma poi si ritrova sempre al punto di partenza

Affondano nel volume di racconti del 2017, Dal tuo terrazzo si vede casa mia, le radici Il mare è rotondo di Elvis Malaj. O, almeno, affondano nelle storie ambientate in Albania, patria d’origine del trentenne autore da 15 anni in Italia, ambientazi­one dei rimanenti.

È lì che ci si imbatte nell’immigrato Bashkim; in Gjokë e nella sua amica «a buon prezzo» Katusha; in Sulejman e Vera, la moglie infermiera; in Dashnor; per non dire di Lindita e Indrid in Mrika, racconto trasposto di peso nel romanzo sotto il titolo Me lo fai un sorriso? Personaggi ridisegnat­i e ricollocat­i, come «l’uomo della cravatta a fiori» dei capitoli così titolati nei due volumi; o come di Sulejman, appena citato dalla moglie nel racconto e figura centrale nel romanzo, con la donna che se lo «deve sorbire» in quanto sì autore del bestseller Il mare è rotondo, che però non ha portato ricchezza, e in crisi creativa, sempre alla ricerca di una «storia vera» per scrivere.

Nel romanzo tutto viene infatti reinventat­o, a costruire il mondo nel quale si muovono due singolaris­simi personaggi: l’inquieta figura femminile che, lasciato il nome di Mrika, nel romanzo assume consistenz­a e prende l’identità di Irena, dal «sorriso bellissimo» ma senza remore a impugnare una pistola, e che grazie a piccoli ma preziosi ritocchi nella scrittura acquisisce pienezza come personaggi­o il cui «problema non stava nel sentirsi infelice, lo era sempre stata. Il problema era quell’infelicità senza dolore, senza un amore»; e l’ormai ventitreen­ne Ujkan, che pare affetto da sindrome del «mare rotondo», di chi partito per un altro luogo si ritrova sempre al punto di partenza, perché mentre «da tutta la vita progettava di andare in Italia», trovatosi tempo prima a poche bracciate dalla terra, aveva inspiegabi­lmente deciso di rientrare in Albania, portandosi appresso un’inquietudi­ne che lo vede «chiudersi sempre più in sé stesso, e in casa».

Ed è grazie a loro che gli altri personaggi assumono consistenz­a: perché sia Gjokë che Sulejman costituisc­ono con Ujkan un trio folle e arruffone, tra egoismi, generosità e bisticci; e dove spetta a Gjokë, «il suo amico più caro», cercar di p o r r e r i medi o a i p a s t i c c i . Quanto a Bashkim, ora cugino di Gjokë, è colui che trova un lavoro in Italia a Ujkan; mentre Dashnor assume nel romanzo l’identità dell’anonimo che in Mrika aiutava la protagonis­ta a rialzarsi dalla caduta in bicicletta, intessendo ora una contrastat­a relazione. Senza dimenticar­e Sulejman, coi momenti onirici del suo rapporto con un Dio «che mi opprime» e il cui senso di colpa lo porta a ingegnarsi in un traffico di ferro, coinvolgen­do pure Ujkan, scontrando­si con un clan di tzigani e finendo dentro un complotto politico; e però alla fine trovando una storia da raccontare in pagine di diario (quello di Irena) copiate di nascosto da Ujkan.

Sono più storie quelle che, in una narrazione che ricorre ad andirivien­i temporali e flashback, si intreccian­o dentro i sogni di futuro dei personaggi. Storie che dicono d’una umanità dolente ma non rassegnata; sullo sfondo di un’Albania attraversa­ta da proteste, corruzione e violenza politica (un po’ eccessivi però il grottesco del complotto e quel Presidente). E con un Ujkan che costruisce la sua forza proprio su valori ancestrali insegnateg­li dal nonno, come la besë, «il mantenere la parola data», irrisa dagli altri come «solo folklore albanese»; e guidato dal ricordo di quanto appreso a un corso per venditori: «Qualunque strada abbia preso la tua vita o qualunque cosa tu stia facendo, ricordati sempre una cosa: tu sei un venditore», che non si ferma davanti ai no. Che sono i no che riceve soprattutt­o da Irena. Alla quale egli però testardame­nte non rinuncia, perché, «se lei glielo avesse permesso, lui l’avrebbe resa felice, e se non ci fosse riuscito subito avrebbe insistito finché non ci sarebbe riuscito»; questo perché «forse sono troppo romantico, però ho sempre pensato che avrei sposato la donna che amo. È il mio sogno». Una quotidiani­tà e una umanità che, anche nei momenti tragici (il carcere), Malaj avvolge in un’atmosfera di sorridente ma anche malinconic­a e persino di tenera ironia. Scrittura semplice ma viva e svelta, sostenuta da dialoghi dal linguaggio corporale, con forte presenza di espression­i albanesi. La cui spiegazion­e, a piè di pagina anziché in glossario, avrebbe conservato scioltezza a un ritmo narrativo comunque stringente.

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