Corriere della Sera - La Lettura
Il mio Perù soffre: troppi tradimenti
È il secondo Paese sudamericano per diffusione del Covid-19, ha patito individualismo, corruzione, arroganza dei guadagni: colpa dei politici, ma anche di una certa Chiesa — denuncia Carlos Castillo, da un anno arcivescovo di Lima. Che pochi giorni fa ha
Sul sagrato della pieve romanica di Caprona, nella campagna di Pisa, incontrai per la prima volta, negli anni Ottanta, un giovane peruviano, Carlos Castillo, non ancora sacerdote, che si preparava all’ordinazione mentre terminava gli studi teologici alla Gregoriana di Roma. A unirci, in quegli anni, il soffio di una spiritualità forte, nutrita dalla illuminata pastorale di un parroco, teologo dei più grandi, Severino Dianich, che offriva ospitalità, durante la pausa estiva, agli studenti stranieri che da Roma non avrebbero potuto tornare per breve tempo nei loro Paesi. Così, a Caprona continuavano a studiare per la tesi di dottorato, sperimentando una dimensione ecclesiale che certamente ne avrebbe segnato il ministero: con la gente, con giovani studenti, con quanti cercavano di credere in una Chiesa mistero di comunione, come recita il titolo di un fondamentale e profetico lavoro di Dianich. Carlos, già laureato in Scienze sociali all’Università Nazionale San Marcos di Lima, allievo di Gustavo Gutiérrez, il padre della teologia della liberazione, consegue il dottorato in Teologia dogmatica a Roma dopo l’ordinazione sacerdotale a Lima nel 1984. Tornato in patria, insegna presso la Pontificia Università Cattolica del Perù dal 1987 al 2019. Ma esercita anche il ministero in varie parrocchie della città, pure in zone difficili.
La sua nomina ad arcivescovo di Lima, come successore del discusso cardinale Juan Luis Cipriani, giunge con la forza di un terremoto ecclesiale. È il marzo 2019.
Eccellenza, un anno dopo in quali condizioni la pandemia ha trovato il suo Paese e il suo continente?
«Il coronavirus in Perù impatta in un Paese caratterizzato, come tutto il continente, da vaste sacche di povertà e diseguaglianza. Ma anche da un altissimo livello di individualismo, sfiducia, corruzione. Con 310 mila contagi, è il secondo Paese sudamericano per diffusione del Covid-19. L’area metropolitana è quella in cui il virus si sta facendo sentire in modo più acuto, anche perché le abitazioni dei poveri non sono adatte per una quarantena: il povero per vivere ha bisogno di uscire, vive della strada. Le misure non reggono, perché la povertà diffusa ne impedisce il pieno rispetto. La gente scappa a piedi per raggiungere i paesi che aveva lasciato per venire a lavorare in città. E la scelta è tra l’economia e la salute. Così, stiamo assistendo a un aumento di contagi e vittime. Poi c’è anche la povertà culturale, la mancanza di educazione, a rendere tutto più complicato».
Come ha risposto il popolo a questa emergenza?
«È stata straordinaria la risposta dei peruviani in termini di solidarietà, un tratto distintivo del nostro popolo: il fatto di aiutare, di condividere anche il poco che si ha, di non voltarsi dall’altra parte. In certa misura, si sono rafforzati anche i vincoli familiari, e — cosa niente affatto scontata nella nostra mentalità religiosa — si è superata di gran lunga la visione della pandemia come castigo divino, al quale reagire placando in termini devozionali l’ira di un Dio che non è quello in cui crediamo, cioè il Dio di Gesù Cristo. Il nostro Dio è amore puro, e l’amore non si compra, a nessun livello».
La classe politica si è dimostrata all’altezza della situazione?
«La gente ha perso fiducia nelle istituzioni. Per questo ho voluto incontrare i rappresentanti del Servizio sanitario e delle cliniche, per discutere anche di misure pratiche, come l’abbassamento delle tariffe per i ricoveri e le degenze: c’è un dovere concreto di restituzione, tante famiglie sono state schiacciate sul piano economico. Un conto è che le strutture sanitarie non vadano in perdita, altra cosa è puntare esclusivamente a fonti di guadagno esorbitante, che si configurano come quelle che in termini ecclesiali possiamo definire “strutture di peccato”. Credo che il nostro Paese debba superare una concezione della salute come affare, meccanismo orientato al guadagno. Questa è una priorità per il Perù, che con i suoi undicimila morti accertati per il Covid-19, chiede all’esecutivo non la sollecitudine per le prossime elezioni, ma la cura per i più poveri e vulnerabili. Non a parole. Comprendere il dolore umano, immedesimarsi in esso, ci costa molto. Soprattutto, non è qualcosa che si improvvisa. È un terreno che si prepara, e non durante l’emergenza. Questa chiede risposte immediate, che sgorgano da un atteggiamento di attenzione, di cura, di ascolto che viene da lontano, per un’autentica rigenerazione».
Come si è posta la Chiesa di fronte a questa doppia tragedia, che mette in crisi ancora più profondamente, insieme alla vita delle persone, la tenuta di un sistema sociale già in sofferenza?
«La Chiesa peruviana si è allontanata per molto tempo dalla gente, e non può meravigliarci, quindi, che i cattolici del nostro Paese siano passati dal 90-95% al 70%. Questo è un segno eloquente per noi, ci fa bene. Perché ci dice in modo concreto che se la Chiesa tradisce la sua missione, che è quella di dare la vita per l’altro, per il mondo, le conseguenze ricadono su tutti, nessuno escluso. Senza opere concrete radicate nella fede, la fede è morta. Nella autoreferenzialità, la fede è morta. Nell’utilizzo della religione per coprire perversioni, violazioni, atti di pedofilia, c’è una perversione più grande di tutte. Dobbiamo ripartire dall’ascolto. Che è il presupposto del dialogo. L’individualismo, inoculato anche da una cultura liberista seguita alla stagione della dittatura di Fujimori, è entrato anche nella nostra fede, aprendo la strada a una religione al singolare, il cui primo obiettivo è la salvezza della propria anima. Quanto al corpo, abbiamo visto che, se si possono curare gli infermi in una prospettiva evangelica, anche lo Stato deve assicurare la salute a tutti. Possiamo lavorare insieme. Il mondo non è qualcosa da fuggire, ma è il destinatario di un dialogo: noi stiamo nel mondo. Non si tratta di contrapporre il religioso al sociale, dando il primato all’una o all’altra dimensione, ma ricordare sempre che “quando io ho fame è un problema materiale, ma quando l’altro ha fame è un problema spirituale”. Quello delle chiese chiuse, dei sacramenti sospesi, è un grande segno per noi: sembra incarnarsi in questa situazione la scelta dell’evangelista Giovanni, che sostituisce il racconto della consacrazione con quello della lavanda dei piedi. Oggi la sfida è anche quella di rifondare una pastorale sacramentale alla luce dei segni dei tempi: il sacramento si celebra anche e soprattutto nel corpo del fratello che soffre, e nella nostra dedizione incondizionata a lenire il suo dolore, che è il dolore del mondo».
Tornano alla mente le parole del gesuita Juan Sánchez, che nel 1758, inaugurando il tempio di San Lazzaro dopo il terremoto del 1746, e resistendo alle insistenze di chi voleva separare quella chiesa dal lebbrosario in nome di un «culto più puro», così iniziò pubblicamente la sua preghiera: «O Dio, non mi sorprende che tu ti senta più a tuo agio nell’ospedale che nel tempio...». Il suo programma pastorale, sintetizzato nel motto «A ti te digo, levántate» si è intrecciato con la realtà sociale del Paese. Qual è il suo sogno di Chiesa, oggi?
«Gesù rivolge l’invito ad alzarsi a persone che avevano sperimentato la malattia, la morte. È possibile superare il degrado attraverso la fraternità, vincere l’ingiustizia con la solidarietà, mettere a tacere la violenza con le armi della pace. Sogno una Chiesa che guardi più all’autentica evangelizzazione che all’autopreservazione, credibile nel suo agire con trasparenza, affrontare i problemi e non nasconderli, riconoscere errori, peccati e anche delitti, quando ci sono, con giustizia e verità. Una Chiesa che vada, sì, con il Vangelo, ma sapendo con chiarezza che Gesù già sta con l’altro, anche in colui che non crede in modo esplicito o che crede alla sua maniera. Non si tratta di conquistare territori né persone, ma di capirle per suscitare e svegliare processi nelle loro vite».
Che cosa possiamo imparare dalla pandemia?
«La sfida all’individualismo, nella pastorale e nella politica. Creando connessioni di idee, che possono diffondersi — queste sì — come un virus benefico, la pandemia sta aprendo un dialogo tra scienza, tecnologia, politica, natura, fede. Questi linguaggi devono potersi contaminare, positivamente contagiare, perché — come ci ricorda Papa Francesco — non ci salviamo da soli, mai».
Ha ricostruito un «noi» simbolico molto importante attraverso il suo gesto di collocare le fotografie di tutti i morti per Covid-19 nella cattedrale di Lima, creando una sorta di comunità immaginata, dedicando a tutti loro, in molti casi privati delle esequie, la messa solenne del Corpus Domini il 14 giugno...
«Sì, siamo stati idealmente riuniti a ricordare, a riportare al cuore il sapore amaro e duro della morte di tanti fratelli. Un gesto contro l’anonimato e l’irriconoscibilità delle vittime, per il rispetto del corpo umano che nella mia prospettiva è sempre Corpus Christi. E adesso siamo chiamati a ripartire non da quello che noi ci aspettiamo dalla vita, ma da ciò che la vita, a partire da quella dei più fragili, si aspetta da noi. Ci resta ancora moltissimo da scoprire, da alleviare e da amare».