Corriere della Sera - La Lettura
Il pianto di Caproni, fedele a Lorca
Un’antologia raccoglie le traduzioni dallo spagnolo del poeta livornese, selezionate da un grande progetto che non ha mai visto la luce. Si nota un atteggiamento di estrema modestia che evita ogni astratta tensione al sublime
Che Giorgio Caproni sia stato un traduttore eccellente dal francese è cosa risaputa. I suoi incontri con poeti come Apollinaire, Frénaud e Char, ma anche con narratori come Proust o Céline, rappresentano a tutti gli effetti episodi importanti della storia letteraria del nostro Novecento. Non si tratta soltanto, infatti, delle risonanze che l’«arte del tradurre», come la definiva lo scrittore livornese, quasi infallibilmente comporta sui versi in proprio di un poeta. Piuttosto, certe traduzioni (con la nutrita serie più o meno sinonimica che si può affiancare: rifacimenti, imitazioni, variazioni) possono essere ascritte senza meno all’opera poeti ca del t r a duttore s te s s o. Certo, quando si entra nel campo del tradurre ci si muove inevitabilmente tra compromessi e paradossi, ma è vero che una raggiunta autosufficienza espressiva costituisce per il testo d’approdo l’unica possibilità di essere fedele al testo originario. Su questo ordine di questioni, del resto, anche Caproni si è espresso nel modo più chiaro: «Non ho mai fatto differenze, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre».
Se il versante francese dell’opera caproniana, fin da subito esposto alla luce del sole, è già stato piuttosto indagato ( Erba francese s’intitola tra l’altro un libretto dell’autore datato 1979), ben più nascosto e per questo sorprendente può risultare il rapporto con la poesia in lingua spagnola. Il poeta stesso, per altro, aveva messo sulle tracce di questa sua passione quando aveva rivelato come i suoi «ascendenti» si dovessero cercare «più in Spagna che in Francia». Non che l’attività del Caproni traduttore dallo spagnolo sia sconosciuta, in ogni caso (alcune prove sono state comprese da Enrico Testa nel Quaderno di traduzioni, uscito postumo nel 1998), ma soltanto gli specialisti potevano sapere che al di sotto delle traduzioni edite, esisteva non solo un lavoro molto più vasto, ma anche un progetto organico che a suo tempo fu effettivamente portato a termine.
Di questa vicenda rende conto con molta attenzione e dovizia di materiali Laura Dolfi, che ha curato una raccolta delle traduzioni di Caproni appunto dalla poesia di lingua spagnola per Feltrinelli: “Pianto per Ignazio”. Versioni da García Lorca e altri poeti ispanici. All’inizio degli anni Sessanta Caproni si era impegnato con l’editore Armando Curcio per la realizzazione di un progetto antologico di grande impegno, i Poeti moderni di tutto il mondo, comprensivo di autori di svariate lingue e Paesi dell’Ottocento e Novecento. Il poeta prese sicuramente di petto questa impresa, tant’è che riuscì a consegnare all’editore nei tempi previsti, che erano piuttosto ristretti, un dattiloscritto di più di ottocento cartelle. L’antologia comprendeva versioni di traduttori diversi, ma erano comunque parecchie quelle di pugno dello stesso poeta. Ed è appunto da quel vasto progetto, che per probabili dissapori con l’editore non approdò alla pubblicazione, che i testi compresi nel volume attuale provengono quasi per intero. Anche il dattiloscritto originale è andato perduto. Tuttavia, come precisa la curatrice, «le pagine definitive rimaste, le copie corrispondenti a precedenti versioni, l’indice degli autori e delle opere selezionate consentono di ricostruire più che bene l’insieme del progetto editoriale e delle versioni italiane».
Se si tiene conto che la prima traduzione edita di Caproni dallo spagnolo, la «lieve ma impareggiabile canzoncina» Arbolé, arbolé di Federico García Lorca, fu pubblicata nel 1956, bisognerà ascrivere il lavoro di Caproni sui poeti ispanici al periodo probabilmente più alto della sua poesia, tra Il passaggio di Enea (1956), Il seme del piangere (1959) e le prime composizioni che confluiranno nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965). Sono anni, insomma, in cui la sua poesia, al pari di quella dei suoi più importanti compagni di generazione (Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Mario Luzi), conosce una piena espansione, appropriandosi di luoghi, figure, retaggi memoriali, problematicità esterna e interiore, prima della magrezza e dei tanti congedi della sua fase più tarda. Certo è impossibile dire se e quanto il calore, la passione, il sangue, ma anche la profondità sentimentale e spirituale, la drammaticità, se non il senso del tragico, della poesia spagnola, possano aver nutrito e influenzato il suo immaginario poetico. Ma è vero che ognuno potrà riconoscere eventuali consonanze a partire da quel Pianto per Ignazio che dà il titolo al volume e rimanda, come ha notato Laura Dolfi, al caproniano Seme del piangere.
Piuttosto, sarà interessante notare l’atteggiamento complessivo di estrema modestia con cui Caproni praticò l’arte del tradurre la poesia spagnola. A Oreste Macrì, ispanista e traduttore insigne, ma anche suo interlocutore privilegiato per le questioni più tecniche della traduzione, scriveva ad esempio nel settembre del ’58: «Ho sempre avuto un debole (debolissimo in fatto di preparazione) per la finezza spirituale e pur così concreta dei poeti spagnoli, ma so tutto ad orecchio: lingua (male), storia (peggio), letteratura (pessimamente). E l’amore, anche grandissimo, non basta davvero ad evitare il rischio del ridicolo, specie quando in Italia c’è un Macrì». Per molti versi questi timori erano giustificati. Specie riguardo ad autori fondamentali quali Lorca o Antonio Machado, in quegli anni in Italia esisteva già una tradizione importante, e dunque un repertorio di traduzioni che spesso e volentieri costituivano precedenti autorevoli e molto noti (le antologie curate da Carlo Bo, ad esempio). Nel caso di Lorca, poi, tanto più dopo la fucilazione del poeta da parte delle milizie franchiste nell’agosto del 1936, era nato un autentico mito biografico e letterario con cui bisognava confrontarsi (Caproni torna più volte su questo argomento). Eppure non poche di queste versioni, tanto più se raffrontate con le prove di altri, possiedono una fisionomia definitissima e inequivocabile.
Si tratti di Lorca o dei fratelli Antonio e Manuel Machado (splendida la versione della sua lirica I giorni senza sole), o di altri classici del Novecento spagnolo e ispanoamericano come Juan Ramón Jiménez, Pedro Salinas, Jorge Guillén, Rubén Darío o Pablo Neruda, Caproni traduce in genere secondo la stessa linea delle sue versioni dal francese, cercando di evitare ogni movimento enfatico o astratta tensione al sublime, per riportare ogni intensificazione sentimentale nell’orizzonte concreto dell’esistenza. La sua fedeltà va anzitutto verso i valori armonici e musicali. Come in quel Pianto per Ignazio che costituisce probabilmente il vertice di questo volume: «Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto./ Di te per ogni tempo canto grazia e profilo./ L’alta maturità del tuo discernimento./ La tua sete di morte, l’amor per la sua bocca./ La tristezza che fu nel tuo allegro coraggio».