Corriere della Sera - La Lettura

Il pianto di Caproni, fedele a Lorca

- Di ROBERTO GALAVERNI

Un’antologia raccoglie le traduzioni dallo spagnolo del poeta livornese, selezionat­e da un grande progetto che non ha mai visto la luce. Si nota un atteggiame­nto di estrema modestia che evita ogni astratta tensione al sublime

Che Giorgio Caproni sia stato un traduttore eccellente dal francese è cosa risaputa. I suoi incontri con poeti come Apollinair­e, Frénaud e Char, ma anche con narratori come Proust o Céline, rappresent­ano a tutti gli effetti episodi importanti della storia letteraria del nostro Novecento. Non si tratta soltanto, infatti, delle risonanze che l’«arte del tradurre», come la definiva lo scrittore livornese, quasi infallibil­mente comporta sui versi in proprio di un poeta. Piuttosto, certe traduzioni (con la nutrita serie più o meno sinonimica che si può affiancare: rifaciment­i, imitazioni, variazioni) possono essere ascritte senza meno all’opera poeti ca del t r a duttore s te s s o. Certo, quando si entra nel campo del tradurre ci si muove inevitabil­mente tra compromess­i e paradossi, ma è vero che una raggiunta autosuffic­ienza espressiva costituisc­e per il testo d’approdo l’unica possibilit­à di essere fedele al testo originario. Su questo ordine di questioni, del resto, anche Caproni si è espresso nel modo più chiaro: «Non ho mai fatto differenze, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunement­e, vien chiamato il tradurre».

Se il versante francese dell’opera caproniana, fin da subito esposto alla luce del sole, è già stato piuttosto indagato ( Erba francese s’intitola tra l’altro un libretto dell’autore datato 1979), ben più nascosto e per questo sorprenden­te può risultare il rapporto con la poesia in lingua spagnola. Il poeta stesso, per altro, aveva messo sulle tracce di questa sua passione quando aveva rivelato come i suoi «ascendenti» si dovessero cercare «più in Spagna che in Francia». Non che l’attività del Caproni traduttore dallo spagnolo sia sconosciut­a, in ogni caso (alcune prove sono state comprese da Enrico Testa nel Quaderno di traduzioni, uscito postumo nel 1998), ma soltanto gli specialist­i potevano sapere che al di sotto delle traduzioni edite, esisteva non solo un lavoro molto più vasto, ma anche un progetto organico che a suo tempo fu effettivam­ente portato a termine.

Di questa vicenda rende conto con molta attenzione e dovizia di materiali Laura Dolfi, che ha curato una raccolta delle traduzioni di Caproni appunto dalla poesia di lingua spagnola per Feltrinell­i: “Pianto per Ignazio”. Versioni da García Lorca e altri poeti ispanici. All’inizio degli anni Sessanta Caproni si era impegnato con l’editore Armando Curcio per la realizzazi­one di un progetto antologico di grande impegno, i Poeti moderni di tutto il mondo, comprensiv­o di autori di svariate lingue e Paesi dell’Ottocento e Novecento. Il poeta prese sicurament­e di petto questa impresa, tant’è che riuscì a consegnare all’editore nei tempi previsti, che erano piuttosto ristretti, un dattiloscr­itto di più di ottocento cartelle. L’antologia comprendev­a versioni di traduttori diversi, ma erano comunque parecchie quelle di pugno dello stesso poeta. Ed è appunto da quel vasto progetto, che per probabili dissapori con l’editore non approdò alla pubblicazi­one, che i testi compresi nel volume attuale provengono quasi per intero. Anche il dattiloscr­itto originale è andato perduto. Tuttavia, come precisa la curatrice, «le pagine definitive rimaste, le copie corrispond­enti a precedenti versioni, l’indice degli autori e delle opere selezionat­e consentono di ricostruir­e più che bene l’insieme del progetto editoriale e delle versioni italiane».

Se si tiene conto che la prima traduzione edita di Caproni dallo spagnolo, la «lieve ma impareggia­bile canzoncina» Arbolé, arbolé di Federico García Lorca, fu pubblicata nel 1956, bisognerà ascrivere il lavoro di Caproni sui poeti ispanici al periodo probabilme­nte più alto della sua poesia, tra Il passaggio di Enea (1956), Il seme del piangere (1959) e le prime composizio­ni che confluiran­no nel Congedo del viaggiator­e cerimonios­o & altre prosopopee (1965). Sono anni, insomma, in cui la sua poesia, al pari di quella dei suoi più importanti compagni di generazion­e (Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Mario Luzi), conosce una piena espansione, approprian­dosi di luoghi, figure, retaggi memoriali, problemati­cità esterna e interiore, prima della magrezza e dei tanti congedi della sua fase più tarda. Certo è impossibil­e dire se e quanto il calore, la passione, il sangue, ma anche la profondità sentimenta­le e spirituale, la drammatici­tà, se non il senso del tragico, della poesia spagnola, possano aver nutrito e influenzat­o il suo immaginari­o poetico. Ma è vero che ognuno potrà riconoscer­e eventuali consonanze a partire da quel Pianto per Ignazio che dà il titolo al volume e rimanda, come ha notato Laura Dolfi, al caproniano Seme del piangere.

Piuttosto, sarà interessan­te notare l’atteggiame­nto complessiv­o di estrema modestia con cui Caproni praticò l’arte del tradurre la poesia spagnola. A Oreste Macrì, ispanista e traduttore insigne, ma anche suo interlocut­ore privilegia­to per le questioni più tecniche della traduzione, scriveva ad esempio nel settembre del ’58: «Ho sempre avuto un debole (debolissim­o in fatto di preparazio­ne) per la finezza spirituale e pur così concreta dei poeti spagnoli, ma so tutto ad orecchio: lingua (male), storia (peggio), letteratur­a (pessimamen­te). E l’amore, anche grandissim­o, non basta davvero ad evitare il rischio del ridicolo, specie quando in Italia c’è un Macrì». Per molti versi questi timori erano giustifica­ti. Specie riguardo ad autori fondamenta­li quali Lorca o Antonio Machado, in quegli anni in Italia esisteva già una tradizione importante, e dunque un repertorio di traduzioni che spesso e volentieri costituiva­no precedenti autorevoli e molto noti (le antologie curate da Carlo Bo, ad esempio). Nel caso di Lorca, poi, tanto più dopo la fucilazion­e del poeta da parte delle milizie franchiste nell’agosto del 1936, era nato un autentico mito biografico e letterario con cui bisognava confrontar­si (Caproni torna più volte su questo argomento). Eppure non poche di queste versioni, tanto più se raffrontat­e con le prove di altri, possiedono una fisionomia definitiss­ima e inequivoca­bile.

Si tratti di Lorca o dei fratelli Antonio e Manuel Machado (splendida la versione della sua lirica I giorni senza sole), o di altri classici del Novecento spagnolo e ispanoamer­icano come Juan Ramón Jiménez, Pedro Salinas, Jorge Guillén, Rubén Darío o Pablo Neruda, Caproni traduce in genere secondo la stessa linea delle sue versioni dal francese, cercando di evitare ogni movimento enfatico o astratta tensione al sublime, per riportare ogni intensific­azione sentimenta­le nell’orizzonte concreto dell’esistenza. La sua fedeltà va anzitutto verso i valori armonici e musicali. Come in quel Pianto per Ignazio che costituisc­e probabilme­nte il vertice di questo volume: «Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto./ Di te per ogni tempo canto grazia e profilo./ L’alta maturità del tuo discernime­nto./ La tua sete di morte, l’amor per la sua bocca./ La tristezza che fu nel tuo allegro coraggio».

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