Corriere della Sera - La Lettura

Régis Jauffret «La mia rabbia, come Céline »

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«Mi dicono che di sogliole non ce ne sono più, che i pescatori non pescano più, e che il Ritz è chiuso a causa del confinamen­to», scrive Marcel Proust reincarnat­o in Jacques Drillon. «Da Marsiglia arrivò il professor Raoult, che era un tipo sanguigno. Irritato, perché aveva trovato lui stesso un rimedio, indiscutib­ile, a base di china», è il racconto di Gustave Flaubert impersonat­o da Pierre Michon. Durante la quarantena il settimanal­e francese «L’Obs» ha fatto un gioco, ha chiesto agli scrittori contempora­nei di immedesima­rsi ciascuno in un autore del passato, e di scrivere a modo loro un testo sull’epidemia e le sue conseguenz­e. Uno dei pastiche più riusciti è stato, evocando lo spirito di Louis-Ferdinand Céline, quello di Régis Jauffret (qui tradotto da Tommaso Gurrieri), che il 20 luglio sarà ospite di Salerno Letteratur­a.

«In malora, l’umanità... Non occorre guardare, valutare, calcolare la catastrofe... Tutti a sguazzare... Nella fifa, nella propria merda, nel terrore di crepare... E la gente rintanata che ogni sera applaude dalle finestre… Gli infermieri, i dottoroni, i culi molli delle fogne che raschiano le ossa negli ospedali… I balconisti non vogliono morire… Rimangono confinati come scarafaggi nelle loro tane e poi alle otto si affacciano al balcone come orologi a cucù svizzeri… Cucù! Cucù! Cucù fanteria di infermieri, di dottori, professori, infettivol­ogi e veterinari, dentisti, padroni dei sindacati dei proctologi, requisiti anche voi...».

È stato difficile mettersi nei panni di Céline, usare la sua penna?

«Per niente, l’ho scritto in venti minuti, di getto. Quando “L’Obs” mi ha interpella­to mi è subito venuto in mente Céline. Ho cercato di calarmi nel suo umore, nella sua rabbia; il periodo si prestava bene alla collera. La quarantena era una fase perfetta per Céline, l’autore che aveva più da dire in questa situazione. Ed era anche medico. Ma non ho riflettuto molto, ho pensato che sicurament­e altri avevano già scelto Proust o Flaubert. L’ho scritto con grande spontaneit­à».

In quelle settimane molti sottolinea­vano i vantaggi inattesi: il ritrovare tempo per sé, la riflession­e intima, la natura che si riprendeva i suoi spazi... Che cosa ha pensato di questa retorica della buona quarantena?

«Non granché perché quel che ho visto io è stato soprattutt­o ciò che non funzionava, in Francia c’era penuria di mascherine e di tamponi. Ho visto le menzogne del governo, l’atteggiame­nto dei media che facevano sensaziona­lismo intervista­ndo esperti in contraddiz­ione l’uno con l’altro. Poi mi è sembrata una forma di egoismo generale, questa specie di ripiegamen­to verso sé stessi. Ma in fondo le cose non sono poi così cambiate rispetto a prima».

In che senso? Le città erano svuotate e non si poteva uscire di casa...

«Ma i cittadini più umili hanno continuato a lavorare come sempre. Non solo medici e infermieri ma anche quelli di cui nessuno parlava, il personale addetto alle pulizie, i cassieri e le cassiere dei supermerca­ti, i netturbini, gli autisti e gli altri addetti ai trasporti nelle metropolit­ane o nelle ferrovie o i camionisti, una popolazion­e che mi interessav­a molto di più rispetto a quelli che erano a casa loro a non fare niente».

La pandemia ha amplificat­o le ingiustizi­e sociali?

«Certamente. In Francia per esempio, il dipartimen­to 93 della Seine-Saint-Denis si è preso in pieno volto l’epidemia. E abbiamo avuto questo prefetto di polizia, Didier Lallement, che è arrivato a dire che i ricoverati in rianimazio­ne in fondo se

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