Corriere della Sera - La Lettura
Alternanza pacifica: la prima volta del Congo
Uno dei nodi irrisolti dell’Africa si trova da sempre nel suo cuore geografico. Il grande Congo non ha mai avuto vita facile, fin dalla sua controversa creazione come possedimento personale di re Leopoldo II del Belgio — il suo «Stato libero del Congo» (1885-1908) — poi costretto a trasformarlo in colonia dello Stato belga per le pressioni internazionali suscitate dalle brutalità compiute sotto il dominio del sovrano. Anche l’avvento dell’indipendenza — il 30 giugno 1960, esattamente sessant’anni fa — fu tra i più turbolenti nel continente. Due episodi tra loro intrecciati marchiarono ancora una volta con la violenza il colosso centrafricano e la sua memoria collettiva. Il primo fu il tentativo di secessione della regione meridionale del Katanga, ricca di risorse minerarie e assistita da una Bruxelles interessata a proseguirne il saccheggio. Il secondo fu la ferita inferta dall’assassinio di Patrice Lumumba, il giovane e orgoglioso primo ministro fatto sparire dalla scena con il coinvolgimento degli Stati Uniti perché giudicato radicale e anti-occidentale. Si era in piena guerra fredda. Fu proprio la logica delle contrapposizioni tra i due blocchi a favorire la disgraziata ascesa al potere di Mobutu Sese Seko, per oltre trent’anni impareggiabile incarnazione stereotipata del «dittatore africano».
L’intera vicenda congolese sembrava rappresentare tutto quello che in Africa era andato storto dalle indipendenze in poi. E lo faceva in maniera maestosa e smisurata, non come una Liberia o Sierra Leone qualsiasi. Un territorio immenso di oltre due milioni di chilometri quadrati, lambito e poi penetrato a fondo dal fiume Congo, secondo solo al Rio delle Amazzoni per portata d’acqua. Una foresta pluviale tropicale — la seconda più grande del mondo — che funziona come un polmone essenziale al pianeta. Un sottosuolo con una ricchezza e varietà mineraria sterminata, che da sempre alimenta gli appetiti delle economie avanzate. Ma come Stato, quello congolese non è mai del tutto decollato. Non è un caso che il suo territorio avesse già catturato l’immaginazione di Joseph Conrad, che nel complicato viaggio di Cuore di tenebra restituiva le difficoltà di una terra più densa di foreste che di genti. Un’area sfuggente per un governo centrale che volesse domarla, costretto in una capitale non lontana dall’Oceano Atlantico, ma distante quasi duemila chilometri dai confini orientali del Paese. Lunghezze che non sono attenuate da solide vie di comunicazione, al contrario: come qualcuno ha osservato, il Congo ha quattro volte la dimensione della Francia, ma i chilometri di strade asfaltate sono meno di quelli del Lussemburgo.
A cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, quando, dopo la fine di quel po’ di stabilità machiavellicamente garantita da Mobutu, il Congo si era avvitato nella peggiore spirale di violenze e decadimento, qualche osservatore ipotizzò che sarebbe stato forse meglio immaginare il suo smembramento in due o tre Stati più piccoli e «gestibili» per dare loro maggiori chance di successo. Sensate o meno che fossero tali proposte, erano e restano pressoché impercorribili. E la ragione è la stessa da sessant’anni: il Katanga non è in realtà uno solo, ma sono potenzialmente infiniti. Il Congo conta oltre 200 gruppi etnici, e concedere la secessione e la formazione di un nuovo Stato a una singola regione o comunità avrebbe l’effetto quasi certo di ispirarne altre cento.
Bisogna allora guardare altrove nel cercare segnali a cui aggrapparsi per intravedere un Congo potenzialmente diverso. Sul fronte economico, la buona crescita economica complessiva nell’ultimo quindicennio, pur non brillantissima se raffrontata ai Paesi della regione che meglio hanno sfruttato la recente fase favorevole. Sul piano socio-sanitario: la sostanziale efficacia dell’azione messa in campo per sconfiggere l’epidemia di Ebola nell’Est del Paese. Sul versante politico, un insperato passaggio del potere attraverso le urne da Joseph Kabila, presidente per quasi vent’anni, a Félix Tshisekedi. Probabilmente frutto di un accordo sottobanco più che di un conteggio pulito delle schede. Ma comunque la prima transizione di potere pacifica, senza l’impiego diretto delle armi, dalla nascita del Paese. La prima volta a sessant’anni.