Corriere della Sera - La Lettura
NOI, I RAGAZZI DI PARCO GOR’KIJ
Guzel’ Jachina è nata a Kazan’, capitale della repubblica del Tatarstan, e vive a Mosca. Ma torna spesso a Kazan’, città di confine tra eleganza tedesca e manicomio sovietico, tra i sogni dei bambini e i dolori della Siberia. Allora — sospirava in quei giorni Timur — ci baciamo o no?
Siberia era fatta di luoghi che avevano suoni simili ai nostri, turcheggianti: Enisej, Bajkal, Surgut, Kurgan. La Siberia era mia nonna che aveva vissuto sedici anni sul fiume Angara, deportata con i kulak. E la Siberia era la tajga di alberi piegati dal vento che avevamo anche noi vicino a Kazan’, nella Repubblica dei Mari. Mosca, invece? Mosca era giusto l’odore di inchiostro da stampa del Cremlino sul libro di scuola, o i fotogrammi in bianco e nero alla tv. La Siberia era reale, era cosa mia; Mosca era un’astrazione ed era cosa d’altri. Per la mia percezione, la Siberia cominciava vicino vicino, magari proprio dal Parco Gor ’kij. O al massimo a un paio di fermate di tram, non oltre.
Che la «strada dei ceppi» passasse attraverso Kazan’ non turbava più nessuno; avevamo fatto il callo a quel milione e mezzo di deportati che ci erano sfilati accanto: Radišcev, i decabristi, Herzen, Dostoevskij e Plešceev, Cernyševskij e i marinai della Potëmkin. Attento a te, vedi di non trasgredire!...
Gli stranieri avevano una sensibilità maggiore della nostra; impressionato dalle scene tragiche cui aveva assistito, lo scrittore e viaggiatore alsaziano Johann Schnitzler chiese aiuto a Dante: «Avevamo davanti il limite di un cammino cui l’immaginazione non poteva che porre a didascalia: Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate! ».
Ce li ho davanti agli occhi: il fabbro stanco che toglie i ceppi dai piedi scartavetrati a sangue dell’ennesimo forzato, il ferro che cade malinconicamente, sonoro, a terra — clang! — e poi l’eco delle risate garrule delle ragazze e le note sfrenate dell’orchestra da oltre il cancello del parco: tube, trombe, tromboni… Nell’Ottocento, però, non si chiamava ancora parco, erano «giardini». E anche il nome faceva invida a quello sovietico: sulle carte di prima della rivoluzione, infatti, erano i Giardini della Svizzera russa.
Colli imponenti coperti di un verde sontuoso, crepacci bizzarri, la curva stretta del fiume fra i rami d’abete: davvero, come si poteva non avere caro quel confine alpino? È Aksakov nella sua Cronaca di famiglia a scrivere di quando, ginnasiali, andavano a caccia di farfalle in quei posti ancora selvaggi, e di come li avessero battezzati «Svizzera». Il nome attecchì. E quando l’ottimo governatore Šipov scelse quelle stesse colline quale sua residenza estiva, il bel mondo di Kazan’ lo seguì a ruota; vennero allora le stradine e i bersò, le panche con i tavolini, le statue di gesso, le pasticcerie per la merenda, ristoranti, osterie e bettole, il teatro meccanico, il palco per il café chantant, il tendone del circo con gli acrobati che sembravano fatti di guttaperca, le corse degli scarafaggi e — signore e signori, accorrete tutti! — i concerti dei cani. Perché, insomma, sarà stata anche la Svizzera, ma restava comunque molto russa.
Poi toccò all’università: i professori tedeschi (e non furono mai pochi, da che venne fondata) occuparono un altro paio di colline. Che da plebeissime Colline delle bestie diventarono «la Svizzera tedesca». In quella parte di parco, a differenza della parte russa, si badava sempre molto alla buona creanza e al rispetto delle regole. E fra le casettine linde e ben tenute sempre si udiva il gorgogliar dei ruscelletti cui la premurosa mano germanica non lesinava cure. Das ist aber schön.
Vivevano così, uno accanto all’altro, quei due mondi con in comune il confine, lo steccato, il nome. Mentre il fango delle strade non lastricate, l’umidità tubercolotica dei quartieri tatari, i laghetti cittadini (ridotti a stagni
dici delle montagne «svizzere», si sparò anche un colpo…
Timur e io camminiamo senza meta nel vialone centrale, infinito. Sentiamo alle spalle le ombre dei grandi del passato. È strano percepire quella presenza, ma è anche bello. Cosa proveranno, loro, fra i manifesti con gli slogan pacifisti ( Miru - mir!), la vernice argentata sulle statue dei pionieri con la trombetta in bocca, e lo stadio dell’associazione sportiva comunista?
La Svizzera russa divenne un parco sovietico nel Trentasei, quando fu anche deciso di cambiarle nome e di provvedere a tutti gli annessi e connessi: la gelateriacaffè, la conchiglia acustica (dove l’acustica era ottima, tra l’altro) e l’intero arsenale visivo della propaganda ideologica. Dopo la guerra, al solito elenco si aggiunse il cinema, una struttura in legno che fecero costruire ai prigionieri tedeschi. Per quell’epoca i «tedeschi di casa nostra» erano rimasti in pochi, la «Svizzera tedesca» era già scomparsa dalle carte (per ovvie ragioni) e l’intera zona era abbandonata a sé stessa. Era anche giusto, se non necessario.
Al confine sud dei giardini di un tempo sorgeva qualcosa di già piuttosto importante per il Paese, e cui le distese invase dalle erbacce dell’ormai «fu» Svizzera tedesca garantivano il migliore dei distanziamenti possibili: la cintura verde allontanava considerevolmente i confini di quella cupa cittadella di pietra cinta da mura invalicabili. L’ospedale psichiatrico.
La clinica per malati mentali «Gioia per i sofferenti» era stata inaugurata intorno alla metà dell’Ottocento. Il primo contingente che la occupò era composto di individui dal cervello troppo vispo, di sediziosi che non si ponevano limiti: i rivoluzionari e i populisti della Narodnaja volja. Lì venivano sottoposti a cure coercitive: camicie di forza, elettroshock, la cara vecchia «avvoltolatura» con la tela olona bagnata… Le possibilità erano due: o fasciati in un letto della «casa della sofferenza» a urlare accanto a una finestra, oppure, sotto quella stessa finestra, a piedi verso est, a tappe forzate, lungo il «cammino della sofferenza» (la clinica era perfettamente a metà tra la Svizzera tedesca e la strada per la Siberia).
Nel Trentanove, per disposizione di Berija, uno dei padiglioni venne messo a totale e diretta disposizione dell’Nkvd; la clinica rinunciò ai giri di parole e cominciò a chiamarsi apertamente «manicomio criminale». I ricoverati continuarono a essere soprattutto prigionieri politici: Andrej Tupolev, Lev Galler, Porfirij Ivanov, Valerija Novodvorskaja, Natal’ja Gorbanevskaja…
Pochi tra i frequentatori del «Parco di cultura e svago Maksim Gor’kij» arrivavano fino al limitare della cittadella di pietra. Da quelle parti non c’erano né svaghi né cultura, solo colline spoglie che si ripresero pian piano il nome di un tempo: le Colline delle bestie. Che tristezza.
Nel parco, invece, ci si divertiva: c’erano le giostre, i go-kart, il gelato (dieci copechi per la mattonella di fiordilatte, quindici per quella di panna, venti per il bicchierino di cialda ripieno). Con i concerti all’aperto d’estate e gli sci a noleggio d’inverno.
In quel parco ho trascorso la mia infanzia felice di bambina sovietica. Noi che abitavamo poco distante ci andavamo ogni momento. Eravamo i padroni. Eravamo «quelli del parco». Recinti e strade battute per noi non esistevano: su e giù per le colline, le strade ce le facevamo da soli di traverso a quelle vere, e ci infilavamo in ogni buco, in ogni fessura fra gli steccati. Ovunque. Era una terra senza genitori, quella, senza maestri né «capi pionieri». Era la terra della libertà.
I tigli di Pugacëv erano il nostro nascondiglio segreto. I prati dell’ex Svizzera tedesca ci servivano per i falò. I tronchi scavati degli abeti erano le cassette postali. Seduti sugli alberi cantavamo. E ci calavamo nei crepacci per raccattare ogni sorta di cianfrusaglie, convinti com’eravamo di trovare tracce degli uomini primitivi (il Lungovolga è pieno di tesori archeologici: solo di mammuth ne è stato ritrovato un branco intero e, ancora prima della Rivoluzione, su una collina furono rinvenuti i resti di un insediamento di uomini di Volosovo, lontani antenati neolitici dei finnici del Volga...).
Amavamo quel parco di un amore autentico e adulto, con tutti i suoi controsensi e tutte le sue brutture. E del parco amavamo anche le orrende sculture, le statue mostruose d’epoca tardo-sovietica: Ivan lo Scemo delle fiabe, tozzo, con i polpacci robusti strizzati nei lacci dei lapti; lo smilzo Cavallino gobbo del folclore, che di fatto somigliava più a un cagnetto con un bel taglio a cresta; o il dottor Ajbolit- Ahichemàle dalla barba fluente che, spietato, strizzava chirurgicamente l’indifesa bestiola (forse un felino) che aveva davanti (e che venne subito e argutamente ribattezzato: Karl Marx stacca la testa alla tigre).
Non ci spaventava nemmeno il vecchio steccato invaso dal muschio e pieno di buchi allettanti: non facevi in tempo a pensarci, che già ti ritrovavi dall’altra parte, dentro al cimitero. Il silenzio delle tombe e l’allegria chiassosa della vita nel parco potevano stare tranquillamente insieme, per noi. Il confine si scioglieva, era indistinto: mentre camminavi per le stradine strette del