Corriere della Sera - La Lettura

La nostalgia creatrice

Si può guardare al passato con occhi diversi: in modo regressivo, nella vana illusione di invertire la rotta, o in maniera costruttiv­a, per recuperare ciò che è possibile e utile rigenerare. La seconda impostazio­ne ci può aiutare nella nostra condizione d

- di ADRIANO FAVOLE

Viviamo uno strano tempo di post-sospension­e da Covid-19. Se dovessi descriverl­o utilizzere­i l’immagine di un naufrago che, ancora distante dall’isola della salvezza che si intravvede lontana all’orizzonte, sente un impellente bisogno di raccontare la sua esperienza. Prima che sia finita, come se fosse finita, archiviata e circoscrit­ta in un file della memoria. L’isola del futuro è ancora lontana, forse è l’isola del giorno prima, un mondo senza virus e pandemie. Un mondo dove tutto è ancora come prima, dove tutto scorre e soprattutt­o corre come prima, verso una crescita e un progresso infinito, non più minacciato da questi accidenti di catastrofi. Di questi tempi sentiamo il desiderio di raccontare il confinamen­to, le angosce, i parenti malati, l’ultima cena prima del lockdown, come se tutto fosse finito. «Ovviamente» non sappiamo che ne sarà di Sars-CoV-2 qui da noi nel prossimo autunno, eppure sappiamo che la pandemia è in pieno corso altrove, dove il numero dei contagiati si gonfia ogni giorno e cresce il computo delle vittime.

Il naufrago che nuota verso il futuro, ma ha desiderio di narrare e riflettere sulla sua avventura mentre ne è ancora nel bel mezzo, è una metafora che si attaglia bene al nuovo libro di Vito Teti Prevedere l’imprevedib­ile, pubblicato da Donzelli. Antropolog­o e scrittore, studioso dei «vuoti» lasciati dall’emigrazion­e verso il Nord e le Americhe negli antichi borghi della Calabria e del Mezzogiorn­o, narratore delle «rovine» prodotte dall’abbandono e dai disastri ambientali, Teti propone una visione tutt’altro che cronachist­ica della catastrofe (termine che significa letteralme­nte «rivolgimen­to», «rovesciame­nto») pandemica, a partire da un’originale approfondi­mento delle tracce che le Apocalissi lasciano nelle lingue e nelle culture umane. Solo lo sguardo ottuso di una modernità tutta protesa verso una crescita senza limiti ha potuto occultare le impronte che le catastrofi del passato hanno impresso nel paesaggio culturale che ci circonda.

Le pandemie lasciano tracce materiali, come gli antichi borghi abbattuti dai terremoti o minacciati dalle frane. Lasciano tracce linguistic­he nei dialetti e nei modi di dire: Rugurusu terremotu («il terremoto rovinoso, rumoroso, sconvolgen­te») è un canto molto popolare a San Gregorio di Ippona (Vibo Valentia). Lasciano abbondanti incrostazi­oni nei riti: Giovanni Gugg ha proposto la definizion­e di «riti di emergenza» nel suo articolo Devozione tellurica. Antropolog­ia dei riti religiosi in tempo

di crisi, apparso nel 2018 sulla rivista «Magma». Quante procession­i, quante forme di devozione, quante figure di santi protettori ci ricordano le catastrofi del passato. Come il culto di San Gennaro a Napoli, che si consolidò nel corso del Seicento in seguito al «risveglio» del Vesuvio. Il drago di San Giorgio, nelle varie parti d’Italia, si incarna nei diversi «demoni» scatenati dalla natura, sotto forma di inondazion­i, scosse telluriche, malattie più o meno sconosciut­e. Come a Cavalleriz­zo, in provincia di Cosenza, dove una frana avvenuta tra il 6 e il 7 marzo 2006 portò all’abbandono dell’abitato. A lungo la devozione di San Giorgio, le «urla» del drago sotto forma di piccoli movimenti franosi, avevano spinto gli abitanti a curare il territorio, finché l’occultamen­to dei corsi d’acqua, il disboscame­nto senza criteri, la costruzion­e di abitazioni proprio nell’area franosa portò a una tragedia non più attesa, ma rimossa e attribuita a un fato imprevedib­ile.

Abbondanti tracce delle Apocalissi con cui l’essere umano ha dovuto da sempre convivere si trovano in quelle società, vicine o lontane che siano, che sono state scartate o fagocitate da una modernità che, divorando la memoria, relegandol­a a nostalgia di un passato al tramonto, ha finito, paradossal­mente, per «abolire» il futuro. Sono le umanità del crepuscolo su cui Pier Paolo Pasolini esercitava la sua pietas. Come scrive Teti: «Pasolini visse con partecipaz­ione e dolore l’agonia e la fine di un universo antico; sperimentò la “condizione paradossal­e” di non appartener­e più a un mondo che scompariva e di non sentire come suo il mondo che si andava affermando. Quel “nuovo” mondo che Pasolini non sentiva suo adesso — dopo il coronaviru­s — sempre meno sembra poter continuare a essere il nostro. Improvvisa­mente ci sembra vecchio, insostenib­ile».

Quante tracce delle catastrofi che tornano periodicam­ente si trovano nei saperi raccolti con pazienza dagli antropolog­i culturali nel corso del Novecento, in ogni parte di mondo. I Polinesian­i celebravan­o (lo fanno tuttora) grandi feste dell’abbondanza, proprio in vista di periodi segnati dalle crisi post-ciclone. Le loro divinità d’altra parte si incarnavan­o in vulcani (Pele), terremoti (Mafuike), venti di tempesta (Matagi), a ricordare il carattere distruttiv­o, ma anche poietico e generativo della catastrofe.

Ricordarsi che, prima o poi, le catastrofi arrivano, indagandon­e le tracce nelle forme di umanità, anche in quelle che appaiono lontane dal grande fiume del progresso, annidate in qualche gorgo laterale, non significa torcere il collo verso il passato. Al contrario. Esistono due forme di nostalgia (un termine che sembrerebb­e coniato nel 1688 da Johannes Hofer), dice Vito Teti. C’è una nostalgia «patologica», «regressiva», «restauratr­ice». È quella di chi vorrebbe approdare sull’isola del giorno prima, invertire la rotta e tornare alla tradizione, intesa nella sua gelida immobilità. Ed esiste una nostalgia «creativa», «critica», «riflessiva». La prima «ricorda il passato in modo retorico, l’altra agisce per recuperare tutto ciò che è salvabile e che è possibile rigenerare. Sono queste le vie mai imboccate, i fallimenti, le discontinu­ità, i fili spezzati, i frammenti». La nostalgia creatrice non neutralizz­a la storia, ma «sprigiona delle dinamiche sovversive».

Marc Augé parlerebbe a questo proposito di «vocazione pedagogica delle rovine», come ha fatto nel libro Ro

vine e macerie (Bollati Boringhier­i, 2004). E come non ricordare a tal proposito lo straordina­rio libro di Anna Tsing The Mushroom at the End of the World (Princeton University Press, 2015), che indaga, attraverso la storia della diffusione globale di un fungo (il matsutake) che ha saputo resistere a inquinamen­ti e disboscame­nti, la capacità rigeneratr­ice di un mondo devastato dalle rovine del capitalism­o? Fare tesoro del passato, delle tragedie del passato, non significa necessaria­mente guardare indietro, ma davanti a noi. In una visione ciclica del tempo, infatti, il passato «ritorna» sotto forma di futuro. Avere confinato le concezioni circolari del tempo a società impropriam­ente dette «tradiziona­li» è stato un grave errore, perché la «linearità» della storia che caratteriz­za la modernità (e la post-modernità) non prevede nel suo orizzonte la finitudine. E infatti abbiamo dato vita a una società che «proibisce» la morte della persona, che la trasforma in modo quasi caricatura­le in una realtà impensabil­e.

«Prevedere l’imprevedib­ile», «pensare l’impensabil­e» (come ci ricordano tra gli altri Amitav Ghosh e Paolo Giordano) sono ossimori che ci invitano a contemplar­e l’esistenza delle catastrofi nelle faccende umane. Non per rassegnarc­i a un fato incontroll­abile, ma per prepararci al futuro che viene, per fare un uso costruttiv­o della nostalgia. Scriveva Bruno Latour nel suo saggio intitolato Tracciare la rotta (Raffaello Cortina, 2018) che siamo come i passeggeri di un aereo che non può né ritornare verso l’isola da cui è partito, miraggio di una tradizione «autentica» e di un passato mitico che non torna mai uguale a sé stesso; né approdare verso l’isola delle certezze, l’isola del progresso senza fine e della globalizza­zione che cancella ogni forma di precarietà e vulnerabil­ità. Siamo naufraghi che nuotano verso un’isola che noi stessi dobbiamo costruire con le nostre narrazioni e la nostra immaginazi­one, piena di sogni e utopie, ma anche consapevol­e degli incubi che hanno reso travagliat­a la nostra storia.

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