Corriere della Sera - La Lettura
La nostalgia creatrice
Si può guardare al passato con occhi diversi: in modo regressivo, nella vana illusione di invertire la rotta, o in maniera costruttiva, per recuperare ciò che è possibile e utile rigenerare. La seconda impostazione ci può aiutare nella nostra condizione d
Viviamo uno strano tempo di post-sospensione da Covid-19. Se dovessi descriverlo utilizzerei l’immagine di un naufrago che, ancora distante dall’isola della salvezza che si intravvede lontana all’orizzonte, sente un impellente bisogno di raccontare la sua esperienza. Prima che sia finita, come se fosse finita, archiviata e circoscritta in un file della memoria. L’isola del futuro è ancora lontana, forse è l’isola del giorno prima, un mondo senza virus e pandemie. Un mondo dove tutto è ancora come prima, dove tutto scorre e soprattutto corre come prima, verso una crescita e un progresso infinito, non più minacciato da questi accidenti di catastrofi. Di questi tempi sentiamo il desiderio di raccontare il confinamento, le angosce, i parenti malati, l’ultima cena prima del lockdown, come se tutto fosse finito. «Ovviamente» non sappiamo che ne sarà di Sars-CoV-2 qui da noi nel prossimo autunno, eppure sappiamo che la pandemia è in pieno corso altrove, dove il numero dei contagiati si gonfia ogni giorno e cresce il computo delle vittime.
Il naufrago che nuota verso il futuro, ma ha desiderio di narrare e riflettere sulla sua avventura mentre ne è ancora nel bel mezzo, è una metafora che si attaglia bene al nuovo libro di Vito Teti Prevedere l’imprevedibile, pubblicato da Donzelli. Antropologo e scrittore, studioso dei «vuoti» lasciati dall’emigrazione verso il Nord e le Americhe negli antichi borghi della Calabria e del Mezzogiorno, narratore delle «rovine» prodotte dall’abbandono e dai disastri ambientali, Teti propone una visione tutt’altro che cronachistica della catastrofe (termine che significa letteralmente «rivolgimento», «rovesciamento») pandemica, a partire da un’originale approfondimento delle tracce che le Apocalissi lasciano nelle lingue e nelle culture umane. Solo lo sguardo ottuso di una modernità tutta protesa verso una crescita senza limiti ha potuto occultare le impronte che le catastrofi del passato hanno impresso nel paesaggio culturale che ci circonda.
Le pandemie lasciano tracce materiali, come gli antichi borghi abbattuti dai terremoti o minacciati dalle frane. Lasciano tracce linguistiche nei dialetti e nei modi di dire: Rugurusu terremotu («il terremoto rovinoso, rumoroso, sconvolgente») è un canto molto popolare a San Gregorio di Ippona (Vibo Valentia). Lasciano abbondanti incrostazioni nei riti: Giovanni Gugg ha proposto la definizione di «riti di emergenza» nel suo articolo Devozione tellurica. Antropologia dei riti religiosi in tempo
di crisi, apparso nel 2018 sulla rivista «Magma». Quante processioni, quante forme di devozione, quante figure di santi protettori ci ricordano le catastrofi del passato. Come il culto di San Gennaro a Napoli, che si consolidò nel corso del Seicento in seguito al «risveglio» del Vesuvio. Il drago di San Giorgio, nelle varie parti d’Italia, si incarna nei diversi «demoni» scatenati dalla natura, sotto forma di inondazioni, scosse telluriche, malattie più o meno sconosciute. Come a Cavallerizzo, in provincia di Cosenza, dove una frana avvenuta tra il 6 e il 7 marzo 2006 portò all’abbandono dell’abitato. A lungo la devozione di San Giorgio, le «urla» del drago sotto forma di piccoli movimenti franosi, avevano spinto gli abitanti a curare il territorio, finché l’occultamento dei corsi d’acqua, il disboscamento senza criteri, la costruzione di abitazioni proprio nell’area franosa portò a una tragedia non più attesa, ma rimossa e attribuita a un fato imprevedibile.
Abbondanti tracce delle Apocalissi con cui l’essere umano ha dovuto da sempre convivere si trovano in quelle società, vicine o lontane che siano, che sono state scartate o fagocitate da una modernità che, divorando la memoria, relegandola a nostalgia di un passato al tramonto, ha finito, paradossalmente, per «abolire» il futuro. Sono le umanità del crepuscolo su cui Pier Paolo Pasolini esercitava la sua pietas. Come scrive Teti: «Pasolini visse con partecipazione e dolore l’agonia e la fine di un universo antico; sperimentò la “condizione paradossale” di non appartenere più a un mondo che scompariva e di non sentire come suo il mondo che si andava affermando. Quel “nuovo” mondo che Pasolini non sentiva suo adesso — dopo il coronavirus — sempre meno sembra poter continuare a essere il nostro. Improvvisamente ci sembra vecchio, insostenibile».
Quante tracce delle catastrofi che tornano periodicamente si trovano nei saperi raccolti con pazienza dagli antropologi culturali nel corso del Novecento, in ogni parte di mondo. I Polinesiani celebravano (lo fanno tuttora) grandi feste dell’abbondanza, proprio in vista di periodi segnati dalle crisi post-ciclone. Le loro divinità d’altra parte si incarnavano in vulcani (Pele), terremoti (Mafuike), venti di tempesta (Matagi), a ricordare il carattere distruttivo, ma anche poietico e generativo della catastrofe.
Ricordarsi che, prima o poi, le catastrofi arrivano, indagandone le tracce nelle forme di umanità, anche in quelle che appaiono lontane dal grande fiume del progresso, annidate in qualche gorgo laterale, non significa torcere il collo verso il passato. Al contrario. Esistono due forme di nostalgia (un termine che sembrerebbe coniato nel 1688 da Johannes Hofer), dice Vito Teti. C’è una nostalgia «patologica», «regressiva», «restauratrice». È quella di chi vorrebbe approdare sull’isola del giorno prima, invertire la rotta e tornare alla tradizione, intesa nella sua gelida immobilità. Ed esiste una nostalgia «creativa», «critica», «riflessiva». La prima «ricorda il passato in modo retorico, l’altra agisce per recuperare tutto ciò che è salvabile e che è possibile rigenerare. Sono queste le vie mai imboccate, i fallimenti, le discontinuità, i fili spezzati, i frammenti». La nostalgia creatrice non neutralizza la storia, ma «sprigiona delle dinamiche sovversive».
Marc Augé parlerebbe a questo proposito di «vocazione pedagogica delle rovine», come ha fatto nel libro Ro
vine e macerie (Bollati Boringhieri, 2004). E come non ricordare a tal proposito lo straordinario libro di Anna Tsing The Mushroom at the End of the World (Princeton University Press, 2015), che indaga, attraverso la storia della diffusione globale di un fungo (il matsutake) che ha saputo resistere a inquinamenti e disboscamenti, la capacità rigeneratrice di un mondo devastato dalle rovine del capitalismo? Fare tesoro del passato, delle tragedie del passato, non significa necessariamente guardare indietro, ma davanti a noi. In una visione ciclica del tempo, infatti, il passato «ritorna» sotto forma di futuro. Avere confinato le concezioni circolari del tempo a società impropriamente dette «tradizionali» è stato un grave errore, perché la «linearità» della storia che caratterizza la modernità (e la post-modernità) non prevede nel suo orizzonte la finitudine. E infatti abbiamo dato vita a una società che «proibisce» la morte della persona, che la trasforma in modo quasi caricaturale in una realtà impensabile.
«Prevedere l’imprevedibile», «pensare l’impensabile» (come ci ricordano tra gli altri Amitav Ghosh e Paolo Giordano) sono ossimori che ci invitano a contemplare l’esistenza delle catastrofi nelle faccende umane. Non per rassegnarci a un fato incontrollabile, ma per prepararci al futuro che viene, per fare un uso costruttivo della nostalgia. Scriveva Bruno Latour nel suo saggio intitolato Tracciare la rotta (Raffaello Cortina, 2018) che siamo come i passeggeri di un aereo che non può né ritornare verso l’isola da cui è partito, miraggio di una tradizione «autentica» e di un passato mitico che non torna mai uguale a sé stesso; né approdare verso l’isola delle certezze, l’isola del progresso senza fine e della globalizzazione che cancella ogni forma di precarietà e vulnerabilità. Siamo naufraghi che nuotano verso un’isola che noi stessi dobbiamo costruire con le nostre narrazioni e la nostra immaginazione, piena di sogni e utopie, ma anche consapevole degli incubi che hanno reso travagliata la nostra storia.