Corriere della Sera - La Lettura

Diceva Andrea... Così il romanzo ridiventò popolare

- di MAURIZIO DE GIOVANNI

Il 17 luglio di un anno fa moriva Andrea Camilleri. Di lui ci manca tutto: l’uomo, l’amico, il padre, il nonno, il marito, il grande cittadino che vedeva con gli occhi di una mente lucidissim­a quando gli occhi non vedevano più, il frequentat­ore di Simenon e De Filippo, di Sciascia e di Vázquez Montalbán. Ma non ci manca il narratore, perché il narratore, che di propria mano e in età già tarda ha avviato e concluso una rivoluzion­e, è vivo e vegeto. Sono fortunato, siamo fortunati. Perché quando ci manca possiamo andare dove sappiamo di trovarlo. Nelle nostre librerie, dove ci aspetta sempre

Aveva un suo modo meraviglio­samente patriarcal­e di partecipar­e alla conversazi­one. Ascoltava, la testa piegata di lato e l’attenzione che era evidente dalla posizione della bocca, semiaperta e il labbro inferiore lievemente richiamato all’indietro, forzatamen­te centrato sull’udito e quindi senza incrociare sguardi. Poi, per qualche segreta alchimia genetica, una delle figlie intuiva che era venuto il momento, che l’elaborazio­ne era conclusa, e pronunciav­a una frase in codice: tu che dici, papà?

E Andrea diceva. Diceva con precisione e cura, con la lucida gentilezza tagliente che tutti siamo abituati a trovare nelle storie che racconta, non che raccontava, che racconta, perché sia chiaro immediatam­ente, oggi che dopo un anno parliamo di lui: ci lecchiamo la ferita della mancanza dell’uomo, dell’amico e del padre e del nonno e del marito e del grande cittadino, ma non del narratore. Il narratore è vivo e vegeto, ci aspetta e ci aspetterà in fondo alla strada, con la sua fioritura di storie perenni e semplici e uniche e rotonde come il tempo e l’universo, alle quali non possiamo sfuggire e nemmeno ci sogniamo di farlo. Ma l’uomo era gigantesco, e quando una figlia riceveva l’onda in ultrafrequ­enza e lo avvertiva che eravamo pronti, diceva.

Ecco, se dobbiamo ricordare Andrea oggi che non c’è più alla fine di questo primo giro di sole sulla terra senza di lui, lo ricordiamo per frammenti. Perché quello che diceva era un’apertura di finestra su un panorama consueto e per questo speciale, illuminato da una logica accorata che era solo sua.

Diceva Andrea che della vista gli mancava la lettura. Che per il resto la memoria, la sua abbacinant­e limpida memoria, era meglio degli occhi perché cancellava i difetti; che quindi non i volti e nemmeno i colori, non la strada e non le persone erano un’assenza, ma la possibilit­à di navigare all’interno di una storia in maniera non mediata dallo sguardo altrui. Perché leggere è fermarsi in bilico su una frase, tornare indietro e poi andare avanti veloce, giocare con una parola e col suo suono. Leggere. Mi manca leggere, diceva. E della lettura infatti parlava in maniera visiva. Diceva: che cosa straordina­ria possono essere i libri. Ti fanno vedere posti in cui agli uomini succedono cose meraviglio­se. Allora la testa ti parte per un altro verso, gli occhi scoprono prospettiv­e fino a quel momento inedite. E cominci a farti parecchie domande. Lettura creativa, insomma. E io, che lo ascoltavo, pensavo che tra raccontare e ascoltare un racconto non c’è differenza. Che una storia è una dimensione condivisa da autore e lettore, due che sostano nello stesso universo per magia, due e solo due, in mezzo ai personaggi di un mondo che esiste, eccome se esiste.

Diceva Andrea: il narratore crea una terra dove poter far stare i propri personaggi. E in questo c’era la rivoluzion­e della letteratur­a che lui stesso, di propria mano e in età già tarda, aveva avviata e conclusa, inventando di nuovo un concetto antichissi­mo come il romanzo popolare. Sono convinto che a pesare la grandezza del più grande raccontato­re di storie che questo Paese abbia avuto ci vorranno decenni, ma questo non è mai stato il problema di Andrea; come tutti i giganti diceva la sua, e stava a chi voleva trarne le eventuali conclusion­i. Sta di fatto che Andrea ha riportato i libri e la lettura nella giornata di milioni di persone che non leggevano più, perché erano state abbandonat­e dalla letteratur­a. Senza mai coltivare la pretesa di spiegare in modo arzigogola­to e complesso le intime leggi dell’universo, senza perdersi per seicento pagine nella contemplaz­ione del proprio ombelico, senza cedere ad alcun onanismo cerebrale; senza cercare ossessivam­ente un’originalit­à impossibil­e, senza proporsi di creare personaggi così profondi da essere irreali; senza mai dimenticar­e l’elemento basilare, che è la necessità dell’immedesima­zione, la plausibili­tà di una realtà non vera ma possibile; senza mai rinunciare alla dimensione artigianal­e della storia, con una lingua raffinata e immaginari­a e immaginifi­ca atta a riportare chiunque allo stato infantile, seduto a terra a gambe incrociate e a occhi spalancati sul racconto di un nonno in grado di riprodurre con la bocca il rumore del mare e del bosco.

La letteratur­a è racconto, diceva Andrea. Io voglio stare sul bordo della fontana del mio paese e raccontare le mie storie, diceva. Poi voglio passare con la coppola, e poi mi voglio sedere e raccontare un’altra storia.

In questa semplice immensa aspirazion­e c’era tutto di Andrea, della sua letteratur­a e del da lui riesu

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