Corriere della Sera - La Lettura
C’è l’ambizione inutile e c’è Pavese in Kentucky
Un ottimo salario. Obiettivo: visto che esistono alternative tecnologiche a quasi tutti i lavori — dicono al neolaureato — deve individuare aree in cui l’attività umana sia necessaria e, in mancanza di quelle, inventarle. E lui comincia...
Michael aveva tutti dieci in pagella quando finì la scuola primaria. Anche dalla maturità uscì con il massimo dei voti. E dopo il liceo, come la maggior parte dei ragazzi, si iscrisse all’università. Nel 2121, a differenza di oggi, i cittadini israeliani non erano tenuti a prestare servizio nell’esercito. A quell’epoca regnava la pace nel mondo (o almeno in ciò che ne rimaneva). Michael si laureò con lode. La sua tesi di dottorato in sociologia era incentrata su un’analisi delle pulsioni autodistruttive tra i disoccupati e ci fu chi la considerò un documento di accusa contro l’establishment. Ma Michael insistette che si trattava di una ricerca rigorosamente scientifica.
Dopo la laurea ricevette diverse offerte di lavoro da prestigiose università all’estero, e anche da qualche azienda nel settore privato. La più intrigante era quella di un istituto internazionale per la ricerca sulle abitudini lavorative finanziato dalle Nazioni Unite di cui Michael non aveva mai sentito parlare e che aveva alle sue dipendenze, a detta dei suoi rappresentanti, «i migliori cervelli del mondo». Gli offrivano uno stipendio spropositato e nell’organico di quell’istituto riconobbe sei premi Nobel — due nel campo dell’economia e gli altri in quello delle scienze sociali e della psicologia. Sei premi Nobel in un istituto di cui lui non aveva mai sentito parlare! Strano, era davvero strano. Si sedette al portatile, digitò il nome del prestigioso istituto in tre differenti motori di ricerca, ma non ottenne nemmeno un risultato.
Chi conosceva bene Michael, ed erano in pochi, lo avrebbe definito «ambizioso». L’unica cosa che contava davvero per lui era la carriera. Questo, per lo meno, era ciò che sosteneva la sua ex moglie quand’erano sposati. Sarebbe quindi corretto affermare che una decisione riguardante il suo futuro professionale sarebbe stata la più importante della sua vita.
Quando perciò Michael scelse di accettare la proposta del misterioso istituto di ricerca sulle abitudini lavorative, lo fece con una certa apprensione. Non era tanto il trasferimento a New York a preoccuparlo — lui parlava benissimo l’inglese e non c’era niente che lo legasse in modo particolare a Israele — quanto il timore di allontanarsi dal grembo protettivo e stimolante della comunità accademica che lo aveva sostenuto e grazie alla quale aveva raggiunto i suoi strabilianti traguardi.
La sede dell’istituto occupava l’ultimo piano del più alto edificio non residenziale del mondo. Dalla finestra del suo ufficio Michael poteva vedere tutta la città e, nei giorni più limpidi, persino la Statua della Libertà.
Non appena si presentò al lavoro gli fu fatta firmare un’infinità di accordi di riservatezza — alcuni talmente lunghi che, a un certo punto, lui smise di leggerli — e il giorno dopo incontrò i membri del consiglio di direzione che, per la prima volta, gli spiegarono chiaramente il vero scopo di quell’organizzazione. A quanto pareva, già nel Ventunesimo secolo, la tecnologia era a uno stadio talmente avanzato che il mondo non aveva quasi bisogno di manodopera.
Michael, che nella sua tesi di dottorato aveva affrontato il tema della disoccupazione globale, era ovviamente a conoscenza di questo fenomeno, ma non delle sue effettive dimensioni. «Al giorno d’oggi — spiegò uno dei tre membri del consiglio di direzione — non esistono più mestieri o professioni veramente indispensabili, a partire dai settori produttivi più basilari per finire a quelli dirigenziali. L’umanità è arrivata al punto in cui tutto ciò che le rimane da fare è mettersi comoda, sollevare i piedi sulla scrivania e riposare».
I membri del consiglio di direzione mostrarono a Michael studi, statistiche e centinaia di dati che un cervello meno sviluppato del suo non sarebbe stato in grado di assimilare. La conclusione era semplice: il bisogno di lavorare dell’uomo è pressoché assoluto e la mancanza di lavoro potrebbe influire negativamente non solo sull’autostima di un individuo ma anche sul funzionamento dell’intera società. «E a questo punto — proseguirono i membri del consiglio — entra in scena il nostro istituto. Visto che oggi esistono alternative tecnologiche a quasi tutti i lavori che l’uomo eseguiva in passato, il nostro compito è quello di individuare aree in cui permanga una effettiva necessità di attività umana e, in mancanza di quelle, inventarle».
Michael annuì, come se tutto ciò che gli era stato detto fosse comprensibile. Da un punto di vista intellettuale aveva assorbito molto rapidamente quella pletora di informazioni ma da un punto di vista emotivo era ancora un po’ scosso. Se tutto quello che quei tre avevano detto era vero, allora i migliori cervelli del mondo, e lui tra loro, erano lì solo per creare, grazie alla loro immaginazione e originalità, posti di lavoro di cui non c’era alcuna necessità, modelli occupazionali tanto moderni e sofisticati che solo i dipendenti dell’istituto sarebbero stati consapevoli della loro inutilità.
Il nuovo lavoro di Michael era decisamente avvincente e lui vi si distinse ancor più di quanto aveva fatto in ambito accademico. Inizialmente il suo contributo si concentrò sulla creazione di nuove aree di occupazione in diversi settori. Uno dei suoi primi lampi di genio fu lo sviluppo e il perfezionamento della cosiddetta «ingegneria funzionale», che ben presto divenne una delle specializzazioni che offriva maggiori potenzialità di lavoro. Nel giro di cinque anni non si sarebbe potuto entrare in una fabbrica, in una stazione ferroviaria o in un centro commerciale senza vedere decine di persone che calcolavano i tempi di lavoro dei dipendenti, stilavano elenchi e proponevano infiniti suggerimenti per ottimizzare e migliorare la produttività.
Oltre a quella dell’ingegneria funzionale Michael riuscì a introdurre altre professioni. Quella di «guida all’integrazione», per esempio: persone che si occupavano di favorire al massimo la socializzazione tra alunni durante la ricreazione. O quella di «assistenti sanitari», responsabili di disinfettare quotidianamente i sedili dei mezzi di trasporto pubblici di tutto il mondo. E questo dopo che l’istituto, con l’aiuto dei suoi brillanti esperti di comunicazione, era riuscito a scatenare il panico inventando un virus letale in grado di penetrare nel corpo attraverso i pori della pelle.
Oltre al suo intenso lavoro Michael cominciò a dedicarsi a nuovi hobby e, grazie a uno di quelli (la barca a vela), conobbe la sua seconda moglie, nonché la madre dei suoi figli. Si chiamava Annie ed era avvocato, una professione che tutti i colleghi di Michael sapevano essere fra le più superflue del mondo. E lui, che ovviamente non aveva mai rivelato questa cosa ad Annie, cercava di gioire con lei quando avanzava di grado o redigeva contratti particolarmente complessi.
Ogni tanti mesi Michael e Annie invitavano gli amici di quest’ultima — che pure svolgevano lavori assolutamente superflui — a una gita in barca, manovrando il loro natante con ammirabile abilità.
Dopo la nascita di Max, il loro primo figlio, decisero però di rinunciare alle uscite in mare per trascorrere più tempo con il piccolo. Quando Max compì un anno Annie disse a Michael che sperava diventasse medico. Lui fece un sorrisetto che a lei sembrò come di sufficienza, e chiese al marito con aria di sfida quale professione avrebbe preferito per lui. Michael, aggrappandosi al suo sorriso stanco, disse che non gli importava, purché Max fosse felice.
Circa dieci anni dopo avere iniziato a lavorare all’istituto per la ricerca sulle abitudini lavorative Michael si
Michael ricevette diverse offerte d’impiego, la più intrigante era di un istituto internazionale finanziato dalle Nazioni Unite del quale non aveva mai sentito parlare ma che in organico contava sei premi Nobel
ritrovò a dirigerlo. Sotto la sua zelante gestione l’istituto aumentò il budget e reclutò molti esperti in discipline umanistiche, un’area che in passato non era stata assolutamente rappresentata, e alla fine, ispirato da uno dei nuovi assunti, un filosofo, commissionò una relazione su quanti posti di lavoro l’istituto fosse riuscito a creare a livello globale con le sue iniziative.
I risultati furono amari.
Si scoprì che la maggior parte di quelle iniziative era finita in niente e le poche che avevano avuto successo avevano provocato in maniera indiretta la perdita di altri posti di lavoro. La conclusione era che anche il lavoro dell’istituto era superfluo e quando Michael presentò quel rapporto poco lusinghiero al segretario generale delle Nazioni Unite, l’uomo storse la bocca in una specie di sorriso incerto. «In quanti sono al corrente di queste conclusioni all’istituto?», chiese nervosamente.
Michael rispose che lui era l’unico e il segretario generale sembrò rilassarsi un po’.
Lo invitò a sedersi, si alzò per chiudere la porta dell’ufficio e poi spiegò a lungo ciò che Michael, in virtù del suo incarico, sapeva da tempo. Più un individuo è creativo, sofisticato e colto, più è difficile trovargli un incarico senza che lui sia consapevole della sua inutilità.
«I dipendenti dell’istituto sono forse le persone più intelligenti al mondo — cercò di adularlo il presidente — e per questo, nel vostro caso, abbiamo dovuto fare uno sforzo particolare».
Dopo quell’incontro, Michael andò in pensione anticipata.
Al termine della commovente cerimonia d’addio il suo sostituto gli diede una bussola d’oro in regalo.
Dopo il pensionamento, mentre l’indefessa Annie continuava a lavorare sodo, Michael trovava il tempo di uscire in mare. Il resto della giornata lo trascorreva con Max e le gemelle.
«Papà — gli chiese Max una mattina mentre Michael lo accompagnava a scuola — quando sarò grande pensi che possa essere come te?».
«Che cosa intendi dire?», si stupì Michael.
«Beh, sai — disse Max sorridendo imbarazzato — uno sfaccendato».
«Forse», rispose Michael arruffandogli affettuosamente i capelli. «Chi lo sa? Se ti impegnerai abbastanza, può essere».
( traduzione di Alessandra Shomroni)