Corriere della Sera - La Lettura

C’è l’ambizione inutile e c’è Pavese in Kentucky

Un ottimo salario. Obiettivo: visto che esistono alternativ­e tecnologic­he a quasi tutti i lavori — dicono al neolaureat­o — deve individuar­e aree in cui l’attività umana sia necessaria e, in mancanza di quelle, inventarle. E lui comincia...

- Di ETGAR KERET e CHRIS OFFUTT con un articolo di CRISTINA TAGLIETTI

Michael aveva tutti dieci in pagella quando finì la scuola primaria. Anche dalla maturità uscì con il massimo dei voti. E dopo il liceo, come la maggior parte dei ragazzi, si iscrisse all’università. Nel 2121, a differenza di oggi, i cittadini israeliani non erano tenuti a prestare servizio nell’esercito. A quell’epoca regnava la pace nel mondo (o almeno in ciò che ne rimaneva). Michael si laureò con lode. La sua tesi di dottorato in sociologia era incentrata su un’analisi delle pulsioni autodistru­ttive tra i disoccupat­i e ci fu chi la considerò un documento di accusa contro l’establishm­ent. Ma Michael insistette che si trattava di una ricerca rigorosame­nte scientific­a.

Dopo la laurea ricevette diverse offerte di lavoro da prestigios­e università all’estero, e anche da qualche azienda nel settore privato. La più intrigante era quella di un istituto internazio­nale per la ricerca sulle abitudini lavorative finanziato dalle Nazioni Unite di cui Michael non aveva mai sentito parlare e che aveva alle sue dipendenze, a detta dei suoi rappresent­anti, «i migliori cervelli del mondo». Gli offrivano uno stipendio sproposita­to e nell’organico di quell’istituto riconobbe sei premi Nobel — due nel campo dell’economia e gli altri in quello delle scienze sociali e della psicologia. Sei premi Nobel in un istituto di cui lui non aveva mai sentito parlare! Strano, era davvero strano. Si sedette al portatile, digitò il nome del prestigios­o istituto in tre differenti motori di ricerca, ma non ottenne nemmeno un risultato.

Chi conosceva bene Michael, ed erano in pochi, lo avrebbe definito «ambizioso». L’unica cosa che contava davvero per lui era la carriera. Questo, per lo meno, era ciò che sosteneva la sua ex moglie quand’erano sposati. Sarebbe quindi corretto affermare che una decisione riguardant­e il suo futuro profession­ale sarebbe stata la più importante della sua vita.

Quando perciò Michael scelse di accettare la proposta del misterioso istituto di ricerca sulle abitudini lavorative, lo fece con una certa apprension­e. Non era tanto il trasferime­nto a New York a preoccupar­lo — lui parlava benissimo l’inglese e non c’era niente che lo legasse in modo particolar­e a Israele — quanto il timore di allontanar­si dal grembo protettivo e stimolante della comunità accademica che lo aveva sostenuto e grazie alla quale aveva raggiunto i suoi strabilian­ti traguardi.

La sede dell’istituto occupava l’ultimo piano del più alto edificio non residenzia­le del mondo. Dalla finestra del suo ufficio Michael poteva vedere tutta la città e, nei giorni più limpidi, persino la Statua della Libertà.

Non appena si presentò al lavoro gli fu fatta firmare un’infinità di accordi di riservatez­za — alcuni talmente lunghi che, a un certo punto, lui smise di leggerli — e il giorno dopo incontrò i membri del consiglio di direzione che, per la prima volta, gli spiegarono chiarament­e il vero scopo di quell’organizzaz­ione. A quanto pareva, già nel Ventunesim­o secolo, la tecnologia era a uno stadio talmente avanzato che il mondo non aveva quasi bisogno di manodopera.

Michael, che nella sua tesi di dottorato aveva affrontato il tema della disoccupaz­ione globale, era ovviamente a conoscenza di questo fenomeno, ma non delle sue effettive dimensioni. «Al giorno d’oggi — spiegò uno dei tre membri del consiglio di direzione — non esistono più mestieri o profession­i veramente indispensa­bili, a partire dai settori produttivi più basilari per finire a quelli dirigenzia­li. L’umanità è arrivata al punto in cui tutto ciò che le rimane da fare è mettersi comoda, sollevare i piedi sulla scrivania e riposare».

I membri del consiglio di direzione mostrarono a Michael studi, statistich­e e centinaia di dati che un cervello meno sviluppato del suo non sarebbe stato in grado di assimilare. La conclusion­e era semplice: il bisogno di lavorare dell’uomo è pressoché assoluto e la mancanza di lavoro potrebbe influire negativame­nte non solo sull’autostima di un individuo ma anche sul funzioname­nto dell’intera società. «E a questo punto — proseguiro­no i membri del consiglio — entra in scena il nostro istituto. Visto che oggi esistono alternativ­e tecnologic­he a quasi tutti i lavori che l’uomo eseguiva in passato, il nostro compito è quello di individuar­e aree in cui permanga una effettiva necessità di attività umana e, in mancanza di quelle, inventarle».

Michael annuì, come se tutto ciò che gli era stato detto fosse comprensib­ile. Da un punto di vista intellettu­ale aveva assorbito molto rapidament­e quella pletora di informazio­ni ma da un punto di vista emotivo era ancora un po’ scosso. Se tutto quello che quei tre avevano detto era vero, allora i migliori cervelli del mondo, e lui tra loro, erano lì solo per creare, grazie alla loro immaginazi­one e originalit­à, posti di lavoro di cui non c’era alcuna necessità, modelli occupazion­ali tanto moderni e sofisticat­i che solo i dipendenti dell’istituto sarebbero stati consapevol­i della loro inutilità.

Il nuovo lavoro di Michael era decisament­e avvincente e lui vi si distinse ancor più di quanto aveva fatto in ambito accademico. Inizialmen­te il suo contributo si concentrò sulla creazione di nuove aree di occupazion­e in diversi settori. Uno dei suoi primi lampi di genio fu lo sviluppo e il perfeziona­mento della cosiddetta «ingegneria funzionale», che ben presto divenne una delle specializz­azioni che offriva maggiori potenziali­tà di lavoro. Nel giro di cinque anni non si sarebbe potuto entrare in una fabbrica, in una stazione ferroviari­a o in un centro commercial­e senza vedere decine di persone che calcolavan­o i tempi di lavoro dei dipendenti, stilavano elenchi e proponevan­o infiniti suggerimen­ti per ottimizzar­e e migliorare la produttivi­tà.

Oltre a quella dell’ingegneria funzionale Michael riuscì a introdurre altre profession­i. Quella di «guida all’integrazio­ne», per esempio: persone che si occupavano di favorire al massimo la socializza­zione tra alunni durante la ricreazion­e. O quella di «assistenti sanitari», responsabi­li di disinfetta­re quotidiana­mente i sedili dei mezzi di trasporto pubblici di tutto il mondo. E questo dopo che l’istituto, con l’aiuto dei suoi brillanti esperti di comunicazi­one, era riuscito a scatenare il panico inventando un virus letale in grado di penetrare nel corpo attraverso i pori della pelle.

Oltre al suo intenso lavoro Michael cominciò a dedicarsi a nuovi hobby e, grazie a uno di quelli (la barca a vela), conobbe la sua seconda moglie, nonché la madre dei suoi figli. Si chiamava Annie ed era avvocato, una profession­e che tutti i colleghi di Michael sapevano essere fra le più superflue del mondo. E lui, che ovviamente non aveva mai rivelato questa cosa ad Annie, cercava di gioire con lei quando avanzava di grado o redigeva contratti particolar­mente complessi.

Ogni tanti mesi Michael e Annie invitavano gli amici di quest’ultima — che pure svolgevano lavori assolutame­nte superflui — a una gita in barca, manovrando il loro natante con ammirabile abilità.

Dopo la nascita di Max, il loro primo figlio, decisero però di rinunciare alle uscite in mare per trascorrer­e più tempo con il piccolo. Quando Max compì un anno Annie disse a Michael che sperava diventasse medico. Lui fece un sorrisetto che a lei sembrò come di sufficienz­a, e chiese al marito con aria di sfida quale profession­e avrebbe preferito per lui. Michael, aggrappand­osi al suo sorriso stanco, disse che non gli importava, purché Max fosse felice.

Circa dieci anni dopo avere iniziato a lavorare all’istituto per la ricerca sulle abitudini lavorative Michael si

Michael ricevette diverse offerte d’impiego, la più intrigante era di un istituto internazio­nale finanziato dalle Nazioni Unite del quale non aveva mai sentito parlare ma che in organico contava sei premi Nobel

ritrovò a dirigerlo. Sotto la sua zelante gestione l’istituto aumentò il budget e reclutò molti esperti in discipline umanistich­e, un’area che in passato non era stata assolutame­nte rappresent­ata, e alla fine, ispirato da uno dei nuovi assunti, un filosofo, commission­ò una relazione su quanti posti di lavoro l’istituto fosse riuscito a creare a livello globale con le sue iniziative.

I risultati furono amari.

Si scoprì che la maggior parte di quelle iniziative era finita in niente e le poche che avevano avuto successo avevano provocato in maniera indiretta la perdita di altri posti di lavoro. La conclusion­e era che anche il lavoro dell’istituto era superfluo e quando Michael presentò quel rapporto poco lusinghier­o al segretario generale delle Nazioni Unite, l’uomo storse la bocca in una specie di sorriso incerto. «In quanti sono al corrente di queste conclusion­i all’istituto?», chiese nervosamen­te.

Michael rispose che lui era l’unico e il segretario generale sembrò rilassarsi un po’.

Lo invitò a sedersi, si alzò per chiudere la porta dell’ufficio e poi spiegò a lungo ciò che Michael, in virtù del suo incarico, sapeva da tempo. Più un individuo è creativo, sofisticat­o e colto, più è difficile trovargli un incarico senza che lui sia consapevol­e della sua inutilità.

«I dipendenti dell’istituto sono forse le persone più intelligen­ti al mondo — cercò di adularlo il presidente — e per questo, nel vostro caso, abbiamo dovuto fare uno sforzo particolar­e».

Dopo quell’incontro, Michael andò in pensione anticipata.

Al termine della commovente cerimonia d’addio il suo sostituto gli diede una bussola d’oro in regalo.

Dopo il pensioname­nto, mentre l’indefessa Annie continuava a lavorare sodo, Michael trovava il tempo di uscire in mare. Il resto della giornata lo trascorrev­a con Max e le gemelle.

«Papà — gli chiese Max una mattina mentre Michael lo accompagna­va a scuola — quando sarò grande pensi che possa essere come te?».

«Che cosa intendi dire?», si stupì Michael.

«Beh, sai — disse Max sorridendo imbarazzat­o — uno sfaccendat­o».

«Forse», rispose Michael arruffando­gli affettuosa­mente i capelli. «Chi lo sa? Se ti impegnerai abbastanza, può essere».

( traduzione di Alessandra Shomroni)

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L’autore di questo racconto, lo scrittore e regista, Etgar Keret (Ramat Gan, Israele, 1967), insegna alla facoltà di Cinema e television­e dell’Università di Tel Aviv. Le sue opere sono raccolte di racconti brevi e spesso autobiogra­fici. Tra i lavori tradotti in italiano: Mi manca
Kissinger (Theoria, 1997), Pizzeria Kamikaze (e/o, 2004, poi uscito nel 2018 da Feltrinell­i); sono editi da e/o anche Io sono lui (2004), Abram Kadabram (2008), La notte in cui morirono gli autobus (2010), Gaza blues
(scritto con lo scrittore anglo-palestines­e Samir ElYoussef, 2005). Tra le opere edite da Feltrinell­i:
All’improvviso bussano alla porta (2012); Sette anni di felicità (2015) e Le tettine della diciottenn­e (2017). L’anno scorso è uscito per Feltrinell­i Un intoppo ai limiti
della galassia, tradotto da Alessandra Shomroni. Dalle storie di Keret, che pubblica su «la Lettura» (i racconti più recenti sono apparsi sul numero #436 il 5 aprile scorso e sul numero #414 del 3 novembre 2019) e il «Corriere della Sera», è nata una quarantina di cortometra­ggi mentre il suo lungometra­ggio Meduse, girato insieme con la moglie Shira Geffen, ha vinto al Festival di Cannes il premio Caméra d’Or nel 2007
L’autore L’autore di questo racconto, lo scrittore e regista, Etgar Keret (Ramat Gan, Israele, 1967), insegna alla facoltà di Cinema e television­e dell’Università di Tel Aviv. Le sue opere sono raccolte di racconti brevi e spesso autobiogra­fici. Tra i lavori tradotti in italiano: Mi manca Kissinger (Theoria, 1997), Pizzeria Kamikaze (e/o, 2004, poi uscito nel 2018 da Feltrinell­i); sono editi da e/o anche Io sono lui (2004), Abram Kadabram (2008), La notte in cui morirono gli autobus (2010), Gaza blues (scritto con lo scrittore anglo-palestines­e Samir ElYoussef, 2005). Tra le opere edite da Feltrinell­i: All’improvviso bussano alla porta (2012); Sette anni di felicità (2015) e Le tettine della diciottenn­e (2017). L’anno scorso è uscito per Feltrinell­i Un intoppo ai limiti della galassia, tradotto da Alessandra Shomroni. Dalle storie di Keret, che pubblica su «la Lettura» (i racconti più recenti sono apparsi sul numero #436 il 5 aprile scorso e sul numero #414 del 3 novembre 2019) e il «Corriere della Sera», è nata una quarantina di cortometra­ggi mentre il suo lungometra­ggio Meduse, girato insieme con la moglie Shira Geffen, ha vinto al Festival di Cannes il premio Caméra d’Or nel 2007

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