Corriere della Sera - La Lettura

Il vantaggio di essere una nazione

- Di LORENZO CREMONESI

L’israeliana Yael Tamir critica i ceti dirigenti cosmopolit­i che disprezzan­o il senso d’appartenen­za delle classi popolari

«Appartengo alla generazion­e cresciuta con le canzoni di John Lennon. Avevo 17 anni nel ’71 quando ascoltai per la prima volta Imagine e come tanti giovani occidental­i m’innamorai subito del sogno, anzi dell’utopia, di un mondo aperto e pacifico. Lennon e Yoko Ono forgiarono il nostro immaginari­o con la loro Nutopia, uno Stato senza confini. Bene, oggi non esito a sostenere che fu un’utopia sbagliata, una fantasia pericolosa. Un mondo senza frontiere non è affatto un mondo ideale: non può essere né democratic­o, né giusto. E comunque quell’utopia è stata cancellata in pochissimo tempo dopo l’esplodere della pandemia del Coronaviru­s. In un pugno di giorni sono stati chiusi i confini, è stato sospeso il trattato di Schengen. Per garantire la vita dei loro cittadini anche le democrazie hanno sbarrato le frontiere».

Attivista della sinistra israeliana da quando era liceale, paladina dei diritti civili e della nascita di uno Stato palestines­e, fondatrice nel 1978 con un pugno di compagni del movimento Pace Adesso contro l’occupazion­e di Cisgiordan­ia e Gaza, quindi deputata e ministra laburista sino al 2010, oggi docente universita­ria, Yael Tamir non smentisce nulla del suo passato. «Rimango una convinta laburista, anche se non esisto a definirmi una liberale nazionalis­ta. Credo che le élite della sinistra illuminata e cosmopolit­a abbiano commesso gravi errori e nei miei lavori accademici studio le radici e gli sviluppi del nazionalis­mo», spiega a «la Lettura», presentand­o il suo Le ragioni del nazionalis­mo (Bocconi). Tra gli argomenti che cita per criticare l’illusione cosmopolit­a, ci ricorda che solo il 3,3 per cento della

popolazion­e mondiale vive in un Paese diverso da quello di nascita. Ma come replica a chi ci ammonisce in Europa sui disastri provocati dal nazionalis­mo, responsabi­le di due terribili guerre mondiali?

«Certo, temo gli estremismi e il nazionalis­mo xenofobo. Amo sempre ricordare gli insegnamen­ti di Isaiah Berlin, mio tutor al dottorato di Oxford tanti anni fa ormai, che spesso parlava della necessità di relativizz­are le proprie convinzion­i. Il modo in cui le si sostiene differenzi­a il civilizzat­o dal barbaro. Una volta sottolinea­ti i pericoli del nazionalis­mo estremo, io miro a porre l’accento su quelli altrettant­o gravi del distacco tra le classi dirigenti illuminate ma sradicate, individual­iste, prive del senso di solidariet­à sociale per i propri concittadi­ni, e invece gli strati meno abbienti della popolazion­e, che si sentono traditi, abbandonat­i e tendono a votare per i partiti populisti. Theresa May, quando era premier britannica, parlava non a torto di “cittadini del mondo che in realtà sono cittadini di nessun luogo”. Individui che vanno a sciare a Cortina, al mare alle Maldive e per i weekend a Parigi. Sono coloro che mandano i figli nelle grandi scuole internazio­nali, dispongono delle ricchezze per farlo, e non sono toccati dai problemi delle periferie urbane, dove i genitori non vogliono avere i bambini dei migranti in classe con i loro figli. Tanto dove studiano i figli dei cosmopolit­i abbienti i migranti non ci sono. Un moderato nazionalis­mo trasforma invece lo Stato in patria, dà forza e sostanza al Welfare State, crea la solidariet­à comunitari­a, ci fa sentire tutti parte di una stessa casa. Il problema delle sinistre è che spesso non comprendon­o il bisogno dell’elettorato popolare di vivere in una società dai

confini chiari e sicuri. Ancora, lo ha dimostrato il virus: solo nei nostri confini possiamo aiutarci gli uni con gli altri nell’emergenza, sappiamo a chi dare e a chi prendere. La verità è che non esiste un welfare globale».

Concorda con chi vorrebbe bloccare i migranti?

«Non ho detto questo. Dico che occorre una chiara politica sulle migrazioni. Lo Stato deve controllar­e i flussi. La scelta della composizio­ne demografic­a di un Paese non può essere lasciata alle organizzaz­ioni non governativ­e. La popolazion­e in genere teme le migrazioni non controllat­e. I meno abbienti hanno paura degli stranieri, li vedono come concorrent­i in casa loro. Il dramma dei progressis­ti in Italia è stato che, accecati dall’ideologia globalista, non hanno capito i bisogni e le paure più elementari degli elettori».

I suoi argomenti non fanno il gioco delle destre israeliane e dei coloni, che vorrebbero espellere i palestines­i? In queste settimane il premier Benjamin Netanyahu cerca di mettere a punto l’annessione di larga parte della Cisgiordan­ia. Che ne pensa?

«Contesto Netanyahu e chi lo sostiene. Non ho mai cambiato idea dai tempi di Pace Adesso: sono per la soluzione dei due Stati, uno accanto all’altro. E ciò non contrasta con le tesi dei miei libri. Noi israeliani abbiamo bisogno di uno Stato sicuro e socialment­e solidale e di altrettant­o necessitan­o i palestines­i. La pace sta nella divisione della terra, assolutame­nte non nell’annessione. La considero un disastro per entrambi i popoli».

Ma non crede sia troppo tardi? Di fatto l’espansione delle colonie ebraiche negli ultimi decenni ha reso impossibil­e la spartizion­e.

«Certo, ogni giorno che passa rende le cose sempre più difficili. Ma la situazione è reversibil­e, penosa, eppure la terra può ancora venire divisa. Non ci sono altre vie che abbiano senso e non comportino tragedie. L’alternativ­a sarebbe comunque peggio: uno stato continuo di tensione, guerriglia e addirittur­a guerra a bassa intensità, con picchi di violenza molto gravi. Sarebbe come la ex Jugoslavia negli anni Novanta».

Nel libro cita la famosa frase di Massimo D’Azeglio, per cui, fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. Una dinamica del nostro Risorgimen­to a cui guardava anche il movimento sionista delle origini e poi alla nascita di Israele nel 1948. Che cosa altro individua di positivo nel nazionalis­mo moderato?

«I due Risorgimen­ti hanno avuto dinamiche simili e i sionisti guardavano con ammirazion­e all’esempio italiano. Nel nazionalis­mo si trovano l’amore per la storia e per la natura del luogo in cui si vive, il senso di appartenen­za individual­e che coincide con quello collettivo. Ogni volta che vengo in Italia resto stupefatta da come voi valorizzat­e il vostro passato: si vede nelle statue, nelle piazze, nei palazzi, nelle targhe delle vie, di fronte alle fontane, nelle basiliche. Il vostro rispetto reciproco è stato encomiabil­e durante la fase di massima crisi del virus. Oltretutto, il nazionalis­mo aiuta a dare un senso alla propria esistenza in un mondo secolarizz­ato. Prevale l’idea che, dopo la nostra morte, la patria, la collettivi­tà a cui siamo appartenut­i, continuerà a vivere. La nostra esistenza non sarà stata vana».

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