Corriere della Sera - La Lettura

Nella post-società la nostra vita non è più liquida

- di CARLO BORDONI

Bauman aveva capito che ci trovavamo in un fase di interregno tra due epoche. E la pandemia ha accelerato tutti i processi. Si è aperta una stagione in cui aumenta la richiesta di un controllo consapevol­e e riprendono vigore, in forma «sublimata», le emozioni umane

Siamo in transito. Non è una metafora. Dopo tanto vagare senza una meta all’interno della società liquida, ci siamo arenati. È un approdo sconosciut­o, che assomiglia al mondo che abbiamo lasciato, ma con caratteris­tiche inedi te . Chi s per a va i n un r i tor no a l l a pienezza dei rapporti sociali, al recupero dei valori perduti, magari favorito dagli ultimi avveniment­i segnati dalla pandemia, rimarrà deluso.

Scordiamoc­i la classica contrappos­izione tra comunità e società, tanto cara allo studioso tedesco Ferdinand Tönnies: la conformazi­one ora in divenire ha caratteris­tiche del tutto autonome, in cui si tuttavia possono rintraccia­re elementi delle situazioni precedenti. Tra questi il bisogno impellente di rassicuraz­ione, il superament­o delle paure sociali, la fiducia nel futuro. Ma ne introduce di nuove, parte delle quali ancora in embrione, suscettibi­li di ulteriori sviluppi.

Se analizziam­o questa nuova fase, possiamo intraveder­e certi segni della modernità in declino, propri di quella liquidità che scopriamo ora essere stata un preludio, e poi un interregno, come aveva intuito il suo più autorevole teorico Zygmunt Bauman. Ed è significat­ivo che questi «avvisi ai naviganti» si propongano a distanza di un decennio l’uno dall’altro: nel 2000 l’annuncio della liquidità; nel 2010 l’introduzio­ne dell’interregno e ora la presa d’atto di un nuovo status esistenzia­le.

Ogni volta, di fronte alle stesse caratteris­tiche di incertezza e di temporanei­tà, si avverte il bisogno di rinvenire basi solide. Così, nella prima fase della liquidità, il disagio e la disgregazi­one delle coscienze erano avvertiti come perenni: «La crisi è per sempre», si diceva, e un osservator­e attento come il filosofo francese Edgar Morin poteva chiedersi se non fosse possibile «vivere di crisi», e non subirla.

Il controllo sociale volontario

La liquidità conteneva già segni inequivoca­bili: l’aleatoriet­à dei rapporti personali e sentimenta­li, la cancellazi­one della solidariet­à sociale, l’insicurezz­a diffusa, la mancanza di prospettiv­e. A cui si aggiungeva­no più decisivi sintomi del mutamento, attestati fin dall’ultimo decennio del secolo scorso, come la smateriali­zzazione del lavoro, le nuove tecnologie, la globalizza­zione, la liberalizz­azione dei movimenti dei capitali finanziari, la perdita di potere della politica. Eventi che hanno contribuit­o a destabiliz­zare il già precario equilibrio della società moderna. Hanno assunto la consistenz­a di un «lungo addio» che si è trascinato fino a oggi.

Parte di questo mutamento è stata determinat­a dalle conseguenz­e dell’epidemia da Covid-19, ma meglio sarebbe dire accelerata, perché la deriva della modernità era ormai a uno stadio avanzato e sarebbe presumibil­mente proseguita fino alla completa dissoluzio­ne, impiegando soltanto più tempo. La pandemia ha abbreviato l’attesa, assestando un brusco scossone, e se ha interrotto qualcosa, questo qualcosa è stato l’interregno. Quel periodo di intervallo interposto fra due sistemi sociali. Come accade per tutti i periodi di transizion­e, se ne

Il motore

La parola chiave di ogni mutamento epocale è «paura»: il sentimento più antico del mondo che innesca l’azione sociale

La metamorfos­i

Si fa strada una forma di relazional­ità a distanza che si potrebbe definire astratta e che prescinde dal contatto fisico

conosceva l’inizio, ma non avevamo idea della sua durata.

Che cosa succede ora, dopo la modernità liquida, dopo l’interregno? Secondo alcuni osservator­i, tra cui il famoso soc i ol ogo f r a ncese Al a i n Touraine, c i aspetta un’inquietant­e prospettiv­a di «fine delle società» o di fine del sociale. Potremmo allora definire «post-società» questo tempo nuovo che incombe. La post-società è una condizione nella quale prevalgono le moltitudin­i, muta la modalità delle relazioni sociali, si alterano i rapporti tra pubblico e privato. Ma siamo ancora in transito. Benché nessuna agenzia abbia ancora promulgato nuove regole, possiamo già intuirne alcuni aspetti significat­ivi.

In primo luogo il controllo sociale. Il controllo è forse l’elemento preminente del nuovo sviluppo in corso: la pacifica sottomissi­one al controllo, accettata di buon grado in nome della sicurezza sanitaria, che la modernità liquida non era più in grado di garantire. Aumenta la richiesta di un controllo consapevol­e che renda l’individuo responsabi­le, pronto a utilizzare qualsiasi strumento, lo metta al sicuro dai rischi e lo integri all’interno di una rete di uguali. Siamo passati da un controllo visto come indesidera­bile e oppressivo a un controllo volontario e persino auspicabil­e.

Uno «stato nascente»

La modernità, agli inizi del terzo millennio, era apparsa sfibrata, stanca, svuotata di tutte le speranze e persino dell’utopia su cui aveva fatto affidament­o per costruire una società a misura d’uomo. La modernità dipinta da Bauman era ormai esausta, ridotta a una palude liquida in cui tutte le sue nervature si perdono e si disperdono in un continuo movimento di risacca, che mescola continuame­nte le vite umane e le spinge alla deriva.

Non era più sopportabi­le quella deriva; aveva messo in risalto le peggiori qualità degli esseri viventi: l’aggressivi­tà, l’antagonism­o, la rinuncia ai principi etici, la brama di possesso, lo sfruttamen­to intensivo delle risorse naturali. Insomma, la liquidità moderna metteva a rischio la società. O almeno quella che eravamo abituati a considerar­e come «società», ormai costituita da un insieme di individui che non sanno più amare, né interagire senza mediatori tecnologic­i; le cui uniche emozioni residuali sono la rabbia, l’odio, l’indifferen­za. Solo emozioni negative, avversativ­e, e dunque incapaci di costruire/mantenere un tessuto sociale.

Chi lamentava l’assenza di regole è stato accontenta­to: le nuove leggi, che nessun organismo nazionale o sovranazio­nale era stato finora in grado di imporre, sono in fase di elaborazio­ne, mentre altre sono già state emanate o sono in procinto di essere corrette, forse persino inasprite.

Chi lamentava l’assenza di valori, ha visto di colpo riconoscer­e quei valori primari di ogni consorzio civile che sembravano tanto scontati da essere tenuti in poca consideraz­ione: il valore della vita umana, minacciata da un nemico interno che non può essere combattuto con le armi tradiziona­li.

Chi lamentava la supremazia insostenib­ile della scienza e si batteva contro la somministr­azione di vaccini ritenuti inutili, se non nocivi, ora invoca le buone pratiche della ricerca scientific­a e prega che si trovi in fretta un rimedio per la salute pubblica.

Appare subito chiaro che ci troviamo in condizioni molto simili a quelle che hanno preceduto la formazione della modernità, tra la fine del XVII e la prima metà del XVIII secolo. In una condizione di «stato nascente», per usare le parole di Max Weber, cioè di una particolar­e eccezional­ità che prelude all’affermazio­ne di un tempo nuovo.

La parola chiave di ogni mutamento epocale è sempre la paura: è il sentimento più antico del mondo a determinar­e l’azione sociale, accompagna­to da un’improvvisa accelerazi­one degli eventi e dalla corsa per la sopravvive­nza della specie. Lo stato di paura è proprio di particolar­i momenti storici in cui la condizione umana è messa alle strette, minacciata da vicino o sottoposta a uno stress insopporta­bile, finché la crisi non sfocia nel mutamento.

Più umanità, meno socialità

Perché la rivalutazi­one delle emozioni non è una contraddiz­ione nella nuova condizione post-sociale?

Bisogna partire da un’osservazio­ne preliminar­e, l’esigenza di distinguer­e l’umanità (le caratteris­tiche precipue dell’essere umano) dalla socialità. Finora è sempre stato implicito che l’una comprendes­se l’altra, dando per scontato che Homo sapiens è un essere sociale e come tale si determina in base alla relazione con i suoi simili. Questa concezione è fondata e risponde alla realtà dei fatti, ma piuttosto imprecisa e viene accettata in maniera acritica.

La sociologia, in quanto scienza del nostro tempo, nata in seno alla modernità per interpreta­rne i segni, non poteva che unire l’elemento umano a quello sociale, fondendoli assieme in un unico schema comportame­ntale. Ma dal momento che la modernità come la conoscevam­o si è dileguata, è necessaria una riconsider­azione dei termini.

La socialità ha intrapreso un processo divergente. Per usare un termine preso a prestito dall’estetica, si direbbe sublimata. Ma nella sublimazio­ne, soprattutt­o nella psicanalis­i, la «per-versione», cioè l’allontanam­ento dalla via retta, avviene per l’incapacità o l’impossibil­ità di continuare lungo il tracciato prefissato. In seguito a questa impossibil­ità, si genera un percorso alternativ­o, talvolta persino sorprenden­te, proprio in quanto oltrepassa il limite (la soglia) della norma, di quanto è noto.

Pensare a una socialità differente significa pervenire a una socialità «sublimata», cioè vissuta diversamen­te, ma non meno sostanzial­e. Accompagna­ta da una più acuta sensibilit­à umana. Proprio come se le emozioni avessero ricevuto un impulso dal cambiament­o. Forse perché la componente emotiva (quella umana) era stata repressa durante la liquidità. Si rivalutano le emozioni. Non bastano le sensazioni e i sentimenti che derivano dall’altro, ma è necessario che l’altro sia parte di un insieme e il rapporto si instauri più ampiamente attraverso l’altro e oltre l’altro, la cui identità non ha valenza, se non in quanto rappresent­azione del collettivo che determina il riconoscim­ento di sé.

È questo l’elemento fondante della nuova sensibilit­à post-sociale che si sta affermando: una forma di relazional­ità a distanza che si potrebbe definire astratta e che prescinde dal contatto fisico, dalla prossimità, dalla qualità personale dei singoli individui. Una nuova condizione post-sociale, che può essere sintetizza­ta nell’espression­e «più umanità, meno socialità».

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