Corriere della Sera - La Lettura
Nella post-società la nostra vita non è più liquida
Bauman aveva capito che ci trovavamo in un fase di interregno tra due epoche. E la pandemia ha accelerato tutti i processi. Si è aperta una stagione in cui aumenta la richiesta di un controllo consapevole e riprendono vigore, in forma «sublimata», le emozioni umane
Siamo in transito. Non è una metafora. Dopo tanto vagare senza una meta all’interno della società liquida, ci siamo arenati. È un approdo sconosciuto, che assomiglia al mondo che abbiamo lasciato, ma con caratteristiche inedi te . Chi s per a va i n un r i tor no a l l a pienezza dei rapporti sociali, al recupero dei valori perduti, magari favorito dagli ultimi avvenimenti segnati dalla pandemia, rimarrà deluso.
Scordiamoci la classica contrapposizione tra comunità e società, tanto cara allo studioso tedesco Ferdinand Tönnies: la conformazione ora in divenire ha caratteristiche del tutto autonome, in cui si tuttavia possono rintracciare elementi delle situazioni precedenti. Tra questi il bisogno impellente di rassicurazione, il superamento delle paure sociali, la fiducia nel futuro. Ma ne introduce di nuove, parte delle quali ancora in embrione, suscettibili di ulteriori sviluppi.
Se analizziamo questa nuova fase, possiamo intravedere certi segni della modernità in declino, propri di quella liquidità che scopriamo ora essere stata un preludio, e poi un interregno, come aveva intuito il suo più autorevole teorico Zygmunt Bauman. Ed è significativo che questi «avvisi ai naviganti» si propongano a distanza di un decennio l’uno dall’altro: nel 2000 l’annuncio della liquidità; nel 2010 l’introduzione dell’interregno e ora la presa d’atto di un nuovo status esistenziale.
Ogni volta, di fronte alle stesse caratteristiche di incertezza e di temporaneità, si avverte il bisogno di rinvenire basi solide. Così, nella prima fase della liquidità, il disagio e la disgregazione delle coscienze erano avvertiti come perenni: «La crisi è per sempre», si diceva, e un osservatore attento come il filosofo francese Edgar Morin poteva chiedersi se non fosse possibile «vivere di crisi», e non subirla.
Il controllo sociale volontario
La liquidità conteneva già segni inequivocabili: l’aleatorietà dei rapporti personali e sentimentali, la cancellazione della solidarietà sociale, l’insicurezza diffusa, la mancanza di prospettive. A cui si aggiungevano più decisivi sintomi del mutamento, attestati fin dall’ultimo decennio del secolo scorso, come la smaterializzazione del lavoro, le nuove tecnologie, la globalizzazione, la liberalizzazione dei movimenti dei capitali finanziari, la perdita di potere della politica. Eventi che hanno contribuito a destabilizzare il già precario equilibrio della società moderna. Hanno assunto la consistenza di un «lungo addio» che si è trascinato fino a oggi.
Parte di questo mutamento è stata determinata dalle conseguenze dell’epidemia da Covid-19, ma meglio sarebbe dire accelerata, perché la deriva della modernità era ormai a uno stadio avanzato e sarebbe presumibilmente proseguita fino alla completa dissoluzione, impiegando soltanto più tempo. La pandemia ha abbreviato l’attesa, assestando un brusco scossone, e se ha interrotto qualcosa, questo qualcosa è stato l’interregno. Quel periodo di intervallo interposto fra due sistemi sociali. Come accade per tutti i periodi di transizione, se ne
Il motore
La parola chiave di ogni mutamento epocale è «paura»: il sentimento più antico del mondo che innesca l’azione sociale
La metamorfosi
Si fa strada una forma di relazionalità a distanza che si potrebbe definire astratta e che prescinde dal contatto fisico
conosceva l’inizio, ma non avevamo idea della sua durata.
Che cosa succede ora, dopo la modernità liquida, dopo l’interregno? Secondo alcuni osservatori, tra cui il famoso soc i ol ogo f r a ncese Al a i n Touraine, c i aspetta un’inquietante prospettiva di «fine delle società» o di fine del sociale. Potremmo allora definire «post-società» questo tempo nuovo che incombe. La post-società è una condizione nella quale prevalgono le moltitudini, muta la modalità delle relazioni sociali, si alterano i rapporti tra pubblico e privato. Ma siamo ancora in transito. Benché nessuna agenzia abbia ancora promulgato nuove regole, possiamo già intuirne alcuni aspetti significativi.
In primo luogo il controllo sociale. Il controllo è forse l’elemento preminente del nuovo sviluppo in corso: la pacifica sottomissione al controllo, accettata di buon grado in nome della sicurezza sanitaria, che la modernità liquida non era più in grado di garantire. Aumenta la richiesta di un controllo consapevole che renda l’individuo responsabile, pronto a utilizzare qualsiasi strumento, lo metta al sicuro dai rischi e lo integri all’interno di una rete di uguali. Siamo passati da un controllo visto come indesiderabile e oppressivo a un controllo volontario e persino auspicabile.
Uno «stato nascente»
La modernità, agli inizi del terzo millennio, era apparsa sfibrata, stanca, svuotata di tutte le speranze e persino dell’utopia su cui aveva fatto affidamento per costruire una società a misura d’uomo. La modernità dipinta da Bauman era ormai esausta, ridotta a una palude liquida in cui tutte le sue nervature si perdono e si disperdono in un continuo movimento di risacca, che mescola continuamente le vite umane e le spinge alla deriva.
Non era più sopportabile quella deriva; aveva messo in risalto le peggiori qualità degli esseri viventi: l’aggressività, l’antagonismo, la rinuncia ai principi etici, la brama di possesso, lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Insomma, la liquidità moderna metteva a rischio la società. O almeno quella che eravamo abituati a considerare come «società», ormai costituita da un insieme di individui che non sanno più amare, né interagire senza mediatori tecnologici; le cui uniche emozioni residuali sono la rabbia, l’odio, l’indifferenza. Solo emozioni negative, avversative, e dunque incapaci di costruire/mantenere un tessuto sociale.
Chi lamentava l’assenza di regole è stato accontentato: le nuove leggi, che nessun organismo nazionale o sovranazionale era stato finora in grado di imporre, sono in fase di elaborazione, mentre altre sono già state emanate o sono in procinto di essere corrette, forse persino inasprite.
Chi lamentava l’assenza di valori, ha visto di colpo riconoscere quei valori primari di ogni consorzio civile che sembravano tanto scontati da essere tenuti in poca considerazione: il valore della vita umana, minacciata da un nemico interno che non può essere combattuto con le armi tradizionali.
Chi lamentava la supremazia insostenibile della scienza e si batteva contro la somministrazione di vaccini ritenuti inutili, se non nocivi, ora invoca le buone pratiche della ricerca scientifica e prega che si trovi in fretta un rimedio per la salute pubblica.
Appare subito chiaro che ci troviamo in condizioni molto simili a quelle che hanno preceduto la formazione della modernità, tra la fine del XVII e la prima metà del XVIII secolo. In una condizione di «stato nascente», per usare le parole di Max Weber, cioè di una particolare eccezionalità che prelude all’affermazione di un tempo nuovo.
La parola chiave di ogni mutamento epocale è sempre la paura: è il sentimento più antico del mondo a determinare l’azione sociale, accompagnato da un’improvvisa accelerazione degli eventi e dalla corsa per la sopravvivenza della specie. Lo stato di paura è proprio di particolari momenti storici in cui la condizione umana è messa alle strette, minacciata da vicino o sottoposta a uno stress insopportabile, finché la crisi non sfocia nel mutamento.
Più umanità, meno socialità
Perché la rivalutazione delle emozioni non è una contraddizione nella nuova condizione post-sociale?
Bisogna partire da un’osservazione preliminare, l’esigenza di distinguere l’umanità (le caratteristiche precipue dell’essere umano) dalla socialità. Finora è sempre stato implicito che l’una comprendesse l’altra, dando per scontato che Homo sapiens è un essere sociale e come tale si determina in base alla relazione con i suoi simili. Questa concezione è fondata e risponde alla realtà dei fatti, ma piuttosto imprecisa e viene accettata in maniera acritica.
La sociologia, in quanto scienza del nostro tempo, nata in seno alla modernità per interpretarne i segni, non poteva che unire l’elemento umano a quello sociale, fondendoli assieme in un unico schema comportamentale. Ma dal momento che la modernità come la conoscevamo si è dileguata, è necessaria una riconsiderazione dei termini.
La socialità ha intrapreso un processo divergente. Per usare un termine preso a prestito dall’estetica, si direbbe sublimata. Ma nella sublimazione, soprattutto nella psicanalisi, la «per-versione», cioè l’allontanamento dalla via retta, avviene per l’incapacità o l’impossibilità di continuare lungo il tracciato prefissato. In seguito a questa impossibilità, si genera un percorso alternativo, talvolta persino sorprendente, proprio in quanto oltrepassa il limite (la soglia) della norma, di quanto è noto.
Pensare a una socialità differente significa pervenire a una socialità «sublimata», cioè vissuta diversamente, ma non meno sostanziale. Accompagnata da una più acuta sensibilità umana. Proprio come se le emozioni avessero ricevuto un impulso dal cambiamento. Forse perché la componente emotiva (quella umana) era stata repressa durante la liquidità. Si rivalutano le emozioni. Non bastano le sensazioni e i sentimenti che derivano dall’altro, ma è necessario che l’altro sia parte di un insieme e il rapporto si instauri più ampiamente attraverso l’altro e oltre l’altro, la cui identità non ha valenza, se non in quanto rappresentazione del collettivo che determina il riconoscimento di sé.
È questo l’elemento fondante della nuova sensibilità post-sociale che si sta affermando: una forma di relazionalità a distanza che si potrebbe definire astratta e che prescinde dal contatto fisico, dalla prossimità, dalla qualità personale dei singoli individui. Una nuova condizione post-sociale, che può essere sintetizzata nell’espressione «più umanità, meno socialità».