Corriere della Sera - La Lettura
Istruzioni per scrivere versi americani
Stati Uniti Tradotto per la prima volta integralmente in italiano il testo di William Carlos Williams che nel 1923, alla pubblicazione, venne considerato come una risposta alla «Terra desolata» di T. S. Eliot. Quasi un inno all’immaginazione
Negli anni Dieci e Venti del secolo passato i rapporti tra le due sponde dell’Atlantico — Stati Uniti ed Europa — sono stati eccezionalmente intensi e complessi per quanto riguarda la civiltà della poesia. Poeti americani come Ezra Pound o T.S. Eliot hanno visto nel vecchio continente una possibilità di darsi o comunque di ritrovare radici non solo poetiche, ma storiche e antropologiche, che la loro cultura d’origine in qualche misura aveva dimenticato. Viceversa altri, ad esempio William Carlos Williams o Robert Frost, hanno guardato all’Europa come a uno specchio rovesciato in cui riconoscere una fisionomia umana e poetica affatto originale, unica e, insomma, assolutamente americana.
Per ironia della sorte La primavera e tutto il resto, il testo programmatico in cui proprio Williams si prefiggeva un simile riconoscimento, uscì nel 1923 a Parigi, nel cuore della cultura europea. È un corposo poema in versi e in prosa (tecnicamente un prosimetro, dunque) che ha come oggetto la poesia, o più precisamente i processi creativi e dell’immaginario di cui la poesia stessa non rappresenta che la conseguenza ultima. Tradotto finora a pezzi e bocconi in italiano, è uscito adesso in un’edizione integrale ben curata e tradotta da Tommaso Di Dio.
Quando scrisse il suo poema Williams aveva già costruito attorno a sé una trama ben definita di conoscenze e rapporti culturali, che i periodi trascorsi a New York o in Europa gli avevano consentito via via di rafforzare (era nato nel 1883 a Rutherford, nel New Jersey, ed esercitò per tutta la vita come pediatra): Pound, Eliot, Marianne Moore e la poesia modernista, ma anche le avanguardie artistiche novecentesche, il cubismo, Marcel Duchamp, Francis Picabia.
È in questo quadro che il libro va compreso, in quanto presuppone sempre uno stato presente delle cose poetiche, e più generalmente dell’arte, a cui rapportarsi per similarità o per contrasto. Basti dire che La primavera e tutto il resto è stata interpretata come la risposta di Williams alla Terra desolata di Eliot, che era stata pubblicata solo l’anno prima e che diverrà di lì a poco il simbolo stesso, se uno ne esiste, della poesia del Ventesimo secolo. Per certi versi si può considerare una versione di sinistra o radicale del modernismo cosmopolita eliotiano; o almeno costituisce il manifesto di quella poesia a fondamento popolare e quotidiano — «nelle vene dell’America», come dirà il poeta — che s’impegnerà poi a realizzare anzitutto col suo poema maggiore, Paterson (è stato riportato in auge nel 2016 dal fil omonimo di Jim Jarmusch e in Italia è ancora disponibile nell’eccellente traduzione di Alfredo Rizzardi).
«L’immaginazione. Questo è il suo libro», scrive Williams. E di fatto la costruzione del discorso poetico e la definizione dell’immagine — entrambe sempre nervose, mobili, reattive — portano dentro di sé le acquisizioni più recenti dell’arte e della poesia internazionali.
Soprattutto, hanno negli occhi le distruzioni, l’impersonalità orribile della tecnologia, il precipizio antropologico in cui l’umanità tutta era piombata con la Prima guerra mondiale. Il mito della primavera evocato nel poema, la sua propulsione interiore, l’orizzonte di una complessiva palingenesi dell’uomo, trovano tutti una giustificazione precisa nella «distruzione della specie dell’homo sapiens » sfiorata solo qualche anno prima. Potremmo anche dire che la realtà dell’immaginazione poetica rappresenta per Williams l’esatto rovescio di quei fotogrammi negativi, di quei buchi neri. Proprio come può esserlo un’energia di vita, una freccia di speranza.
L’immaginazione, dunque. Da questo punto di vista il poema ha un carattere sostanzialmente auto-riflessivo, perché mette a fuoco e celebra l’immaginazione creatrice nel momento stesso in cui la mette in atto. È insomma una poesia (poesia e prosa, come detto) su come la poesia stessa si scrive, o più profondamente come si concepisce, si fa crescere, si nutre. È un modo di scrivere di cui si ricorderà senz’altro il nostro Vittorio Sereni (che non solo amava ma conosceva profondamente il poeta americano, anche per averlo tradotto a più riprese), quando comporrà il suo testo più impegnativo, uno tra i suoi migliori in assoluto, vale a dire lo splendido poemetto Un posto di vacanza. Il discorso poetico di Williams unisce di conseguenza un massimo d’immediatezza, la poesia che si mostra allo stato nascente, vale a dire nel suo stesso farsi, a un massimo di distacco, che è poi il distanziamento critico di chi sta argomentando sulle sue stesse operazioni.
A colpire, allora, è anzitutto la tensione tra l’impulsività, la spinta sorgiva, l’irruenza tutta a caldo della scrittura di Williams da un lato, e il distacco critico, la qualità dell’esperienza poetica e della riflessione che le sue considerazioni spesso e volentieri rivelano. È un testo ricco di definizioni e giudizi di notevole profondità; un testo con una struttura aperta, fluida e rapsodica che sembra determinata dalla necessità del momento, ma che pure possiede un rigore argomentativo e una coerenza d’insieme tutt’altro che improvvisati. L’immaginazione poetica, ben prima o al di là di essere un fatto tecnico, viene ricollegata a una trasformazione interiore. E bene ha fatto il curatore, che è poeta a sua volta, a consigliarne la lettura soprattutto a chi è intenzionato a scrivere versi. Scritte nel fitto del tempo, le considerazioni di Williams hanno un valore che lo trascende e che ha molto da insegnare sulle prerogative della creazione poetica nella sua «identità» profonda (che è cosa ben diversa dall’imitazione) con la natura e con la vita.