Corriere della Sera - La Lettura
Le tre madri dell’amico geniale
Radici Il quindicenne Macondo — attenzione al nome — vive con la nonna pittrice e indaga sul proprio passato. Con lui l’autrice Sara Fruner esplora il valore della famiglia. Oltre il sangue
Macondo ha quindici anni, un nome improbabile che va oltre la toponomastica poetica di Gabriel García Márquez, un quoziente intellettivo altissimo, una nonna pittrice con cui comunica solo per iscritto, una tribù di artisti che gravita attorno alla loro casa, un’amica, la Bea, che vale quanto un’anima gemella. È brillante e fragile, geniale e bambino (nonostante l’altezza). Il suo passato è chiuso in una scatola, ha avuto tre madri e non ne ricorda neanche una. Anche solo così risulta difficile non rimanere affascinati dal brillante protagonista di L’istante largo, esordio narrativo di Sara Fruner (Bollati Boringhieri). Ma il suo viaggio nell’adolescenza, la ricerca tra le proprie origini e il concetto di famiglia in un mondo non convenzionale e dunque molto reale, va oltre il romanzo di formazione: diventa un’indagine profonda sui legami, il loro potere. «Io non credo al sangue. Credo alle persone».
Non deve essere semplice vivere con un’anziana famosa e anticonformista, costretta al mutismo da un carcinoma alla gola, e scambiare con lei solo foglietti di carta, frequentare una scuola per cervelloni, giocare a basket, innamorarsi e contemporaneamente cercare indizi sulla propria identità. Questo fa Mac(ondo), un po’ Holden Caulfield, un po’ Sherlock Holmes (ma anche Theo Decker, voce narrante del Cardellino di Donna Tartt): cresce. Vive con nonna Rocío, cilena, convinta che il ragazzo non debba sapere nulla «di quello che è stato» fino al compimento della maggiore età, e che per questo ha nascosto tutto in una scatola sull’ultimo scaffale dello studio.
Da qui, da questo senso d’insofferenza, parte l’investigazione di Macondo, che raccoglie indizi, prove, carpisce memorie dai variegati (e splendidi) amici di Rocío, Ernesto, Platone, Hasi arrivato dalla Somalia, Rubi, Corinna la cantante, Zeus, il poeta marocchino. «Chissà cosa avrebbero detto se avessero saputo che a casa mia le invitate limonavano e gli uomini si scambiavano bacetti da vecchi. Per me era tutto normale». Una famiglia senza geni in comune ma vitale, vera, solida. Legata da un passato «che vive dentro e fuori di noi e respira nelle persone che ci aiutano a fare di noi quello che dobbiamo diventare». Aperta e preziosa come un istante largo, «che concede quello che di solito è negato».
Sbaglia, soffre, piange. Fa le cose di un ragazzino e ragiona come un adulto (intelligente) Macondo, incantevole protagonista tratteggiato da Sara Fruner (Riva del Garda, Trento, 1978) con grazia e profondità. Con un linguaggio che le è valso i complimenti di André Aciman, l’autrice lo segue nella sua ricerca faticosa, ma anche nelle sue giornate con la Bea, amata e sognata, nei tentativi di stringere nuove amicizie, nel suo catalogo di emozioni che è vasto come la tavolozza di nonna Rocío, azzurro ciano 247, bianco avorio 021, terra d’ombra bruciata 492, verde ftalo 321. Rispetta con pudore il suo dolore mentre trova nuovi indizi: una lettera della madre biologica, il quaderno della nonna fitto di rivelazioni in un rimando continuo tra Cile, Stati Uniti, Italia. Il respiro è internazionale (come l’autrice: Sara Fruner è, tra l’altro, docente di Italiano presso la New York University, scrive poesie anche in inglese), il ritmo sostenuto: alla voce di Macondo si alternano le corrispondenze dei suoi interlocutori, vivi e morti, scritti autografi ingialliti dal tempo, email dal presente, squarci su un futuro ancora troppo indefinito.
Il passato che non si contiene, la nonna che ha previsto tutto, il plico di fogli battuti a macchina che spiega, rivela, racconta una storia. L’immigrazione, la rivoluzione sessuale, gli anni Sessanta e Settanta, tre giovani donne — Maia, Consuelo, Doriana — e le loro vite spezzate, un istante sospeso in cui è impossibile tornare indietro ma da cui si possono trovare spazi nuovi, guarire le cicatrici e, forse, ricominciare. «E poi, come ha scritto nonna Rocío in uno scontrino, ci sono tutti quelli che fanno quello che possono. Il mondo è fatto di persone che fanno quello che possono. E loro, in qualche modo, sono arte».
Tante cose frullano nella testa di Macondo, come in quelle del lettore quando arriva in fondo alle 286 intense pagine del libro. Una in particolare: sarebbe bello sapere cosa farà quel ragazzino tra qualche anno. Cosa sarà di lui e della nonna. Come finirà con la Bea, se sarà finalmente felice.