Corriere della Sera - La Lettura
Le troiane sanno che non andrà tutto bene ma alzano la testa
Classici Il regista Andrea Chiodi porta ai nostri giorni la tragedia di Euripide. Ecuba, Cassandra, Elena e Andromaca affrontano la guerra del Covid. «Per rompere l’isolamento». Debutto a Brescia
Le troiane, arrivato secondo alle Grandi Dionisie del 415 avanti Cristo ad Atene, è da 2.435 anni la tragedia del dolore e della dignità offesa: leggi Siria o Afghanistan o la vicina di casa rimasta orfana dei figli, vedova del marito, siamo sempre noi. Andrea Chiodi, talentuoso regista che ama ascoltare i classici, siano William Shakespeare o Claudio Goldoni, parlarci suadenti alle orecchie, sta preparando un’esplosiva versione della tragedia di Euripide in cui le donne sono prigioniere di guerra ma chiuse in casa. Come noi nei mesi del Covid, come la saga degli Atridi che spruzza dal mito sangue contemporaneo in La casa dei nomi di Colm Toìbìn. La pièce debutterà a Brescia l’8 settembre.
Spiega Chiodi a «la Lettura»: «Come raccontare Le troiane oggi, i lamenti e le sofferenze di Ecuba, Cassandra, Elena e Andromaca, schiave nella vinta città di Troia? Io vengo da casa, come tutti, eppure la tragedia è entrata tra le mura domestiche, vi si è inserita. E rileggendo Euripide ci accorgiamo che non è cambiato niente nel cuore dell’uomo. Non possiamo vedere i nostri morti, dicono le donne di Troia, così come altre donne hanno pianto i loro cari a Bergamo durante la pandemia o come racconta Alessandro Manzoni quando narra la peste a Milano. È incredibile come ci sia lo stesso immaginario, anche quando osserviamo la realtà filtrata dai mass media. Nella storia dell’uomo si sono ripetute cose che Euripide aveva già intuito, la separazione delle madri dai figli come nella Shoah o fra i profughi dei barconi, ma anche una donna milanese cui è morto il marito di Covid: non abbiamo mai imparato niente. Pensiamo sempre che le cose peggiori non possano accadere di nuovo. Invece sì. Accadono».
Le troiane — Elisabetta Pozzi, Ecuba; Federica Fracassi Cassandra; Alessia Spinelli, Elena; Valentina Bartolo, Andromaca oltre a Graziano Piazza che raduna le figure maschili — saranno in un interno borghese ottocentesco dal pavimento rosa, come nelle tombe antiche, colore con qualcosa di mortifero.
In salotto un grande schermo e un computer e tutte, mamma e sorelle in una quadratura nera con vecchie poltrone, un interno senza tempo e vestiti di tutti i giorni per «giocare» con un racconto anticamente attuale come lo sono gli incubi, tanto che alla fine potrebbero essere sommerse dalla cenere, dalla rovina. «E tutti — anticipa ancora il regista — entreranno e usciranno dalla tragedia, fuori e dentro dai personaggi, per giudicare i fatti e allacciarli a oggi. Già Amleto si domandava perché piangere per Ecuba: e allora perché continuiamo a commuoverci per una tragedia senza mai superarla? Ed ecco che il teatro, così maltrattato, visto così superfluo, ha responsabilità enormi nel giudicare i tempi. Usando un vecchio “trucco”, il teatro nel teatro: rappresentare la tragedia è mettere il mondo di fronte allo specchio».
Perciò Angela Demattè, che riduce e traduce Euripide viaggiando consapevole nel tempo, introdurrà nel testo parole che immediatamente portano ad oggi: «Come quando si parla di contagio, città deserte, patimento» dice Federica Fracassi che ha facoltà di vedere il futuro, è ancora Cassandra come in Ecuba dell’irlandese Marina Carr, data a Vicenza l’anno scorso. Aggiunge l’attrice, che al senese festival di Radicondoli reciterà il 7 agosto
en plein air canti eroici di Ludovico Ariosto: «Predico e prevedo che dalla storia non si impara. Bellissimo e dolorosissimo il rapporto di Cassandra con la madre: lei non è mai figlia o persona ma entità, una sacerdotessa vergine, funzione tradizionalmente dei maschi. Nelle
Troiane infatti si declina per ciascuna la femminilità in modo diverso, io potrei essere un’invasata da una ideologia o religione, quasi asessuata, ma con un dolore pazzesco per non essere considerata dalla madre. Cassandra parla da sola: le altre dialogano fra loro, io monologo, costituisco un elemento perturbante e provocatrice. Cassandra fa salire la paura ma lei stessa è terrorizzata, vede avverarsi il disegno. È una donna strana che ha superato la femminilità, un po’ adolescente come Greta Thunberg, un po’ transgender nel senso etimologico della parola, che ha abbandona il suo essere donna in senso classico. Tutte noi dobbiamo essere dentro e fuori la storia per dimostrare che riguarda oggi». E poi c’è da risolvere l’eterna faccenda degli dei che in Euripide giocano con i destini umani. Dice Chiodi: «Questi dei sono i governanti d’oggi, anche europei, e giocano con gli uomini come fossero barchette. Ma è un gioco rischioso, la gente finisce per invocare un solo dio, leggi un uomo solo al comando, mettendoci tutti a rischio, come è evidente nel 2020: perché il lato oscuro di noi cerca il potere assoluto».
Come vede Le troiane? «Le donne nella casa faranno cose quotidiane come il pane, sono sorelle ed Ecuba è la madre, tranne Elena che vedo molto volgare, di una volgarità televisiva, non una che ammalia ma che ti frega». E c’è l’idea rivoluzionaria del coro, esempio di massima interazione: «In questi mesi di lockdown tra balconi e piattaforme si è formato un senso sociale nuovo, un coro di voci. Così abbiamo pensato che il pubblico diventi
coro davvero, dicendo anche alcune battute e moltiplicandone così il senso. Si collegano al telefono con la Corifea, diventano visibili sullo schermo, connettendosi».
Per una volta in sala bisognerà accendere i cellulari invece di spegnerli, sarà come una vasta video chiamata su Zoom, con un codice da scansionare all’ingresso col telefonino. «Si fa anche con i menu da scansionare al ristorante» aggiunge Cassandra-Fracassi. Chiodi pensa alla guerra del Covid con i suoi morti di giornata, anche insepolti, come Jean-Paul Sartre aveva invece riletto
troiane nel 1964 pensando ai morti della guerra di Algeria. Elisabetta Pozzi è già stata più volte Ecuba, nel testo di Marina Carr e prima anche a Siracusa con il compianto Massimo Castri: «È la Tragedia dalla T maiuscola, l’unica statica, quindi va bene che siamo in casa ma potremmo essere in un campo profughi perché, come in
Terrore e miseria del Terzo Reich di Bertolt Brecht, ci sono i sintomi e le evidenze del disfacimento. Ma c’è una dignità fortissima, esortazione che vale per chiunque pur avendo davanti agli occhi il deserto». Una tragedia della memoria collettiva? «Una tragedia della memoria collettiva che si riflette come in uno specchio: non c’è nulla di buono e giusto, ma siamo noi i veri responsabili ma ora noi teatranti vogliamo togliere le persone dall’isolamento, renderle partecipi, anche del dolore».
Se si vuol trovare uno spiraglio, il suggerimento è offerto dal regista: «È la battuta iniziale di Ecuba quando la regina invita a rialzare la testa, provando ad andare oltre la tragedia. Non andrà tutto bene ma andrà tutto secondo un bene misterioso che gli antichi conoscevano e noi stiamo un po’ sotterrando. Bisogna sapere che si può andare avanti: se il Male è sempre presente, anche la volontà e gli occhi che luccicano commossi sono disperati ma eterni».