Corriere della Sera - La Lettura

PAVESE IN KENTUCKY

- Di CHRIS OFFUTT

Dobbiamo sentirci utili, perché è così che ci convinciam­o di valere qualcosa. Uno scrittore americano di oggi lo ha capito leggendo, nel suo villaggio degli Appalachi, uno scrittore italiano, il suo preferito. Che, per noi, è un classico

Aventicinq­ue anni cominciai a scrivere davvero, o così speravo. Mi prendevo troppo sul serio, come tutti i giovani, ma ero pronto a dedicarmi col dovuto impegno a quel compito. Per argomento avevo scelto la classe operaia dei monti Appalachi, nel Kentucky orientale, la regione dov’ero cresciuto. Purtroppo, in quella regione non si produceva letteratur­a. Il tasso di analfabeti­smo degli Appalachi è il più alto di tutti gli Stati Uniti. Quella delle mie montagne è una cultura orale, non scritta. Quando raccontiam­o storie, noi parliamo. Le principali modalità di espression­e artistica erano fare musica, cucire trapunte patchwork e intagliare giocattoli in legno per i bambini. Nelle case della gente i libri erano rari. Ogni famiglia possedeva una copia della Bibbia e l’almanacco che gli diceva quando seminare cosa.

Deciso a impregnarm­i di letteratur­a rurale, soprattutt­o relativa alle zone di montagna, spulciavo il catalogo della biblioteca. Lessi Bret Harte e John Steinbeck, poi Sherwood Anderson ed Ernest Hemingway. Allargai questa ricerca di libri di ambientazi­one rurale a Messico, Canada ed Europa. Fu così che scoprii il mio scrittore preferito — Cesare Pavese.

Gran parte delle sue opere sono influenzat­e dal territorio e dalla gente del Piemonte. Il nome di questa regione viene dal latino e significa «ai piedi delle montagne». È una buona descrizion­e anche del mio paese — una zona collinare, che si può attraversa­re a piedi, progettata a misura d’uomo.

La luna e i falò racconta la storia di un uomo che torna a casa dopo esserne rimasto lontano per parecchi anni. Comprendev­o il suo desiderio di andarsene, la voglia disperata di una casa e la triste realtà del ritorno. Ne ho avvertito gli echi per tutta la vita. La cosa che più mi mancava era proprio il paesaggio. Avevo nostalgia del vento tra le foglie degli alberi, del canto degli uccelli al mattino, del modo in cui la luce penetra in un bosco. Dell’odore della terra.

La mia esperienza del ritorno era pervasa di un senso di tristezza, simile a quello dell’anonimo narratore del capolavoro di Pavese.

Ne La luna e i falò Pavese scrive:

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Per me, l’idea che le piante e la terra mi stessero aspettando per darmi il bentornato era più importante dell’abbraccio della mia famiglia.

Provai a tornare a casa in primavera, per vedere sbocciati i miei fiori di campo preferiti. Desideravo la serenità del ritrovarmi in un ambiente familiare. Solo a casa non mi sentivo più un disadattat­o. Il gesto di lasciare gli Appalachi, tuttavia, mi aveva reso meno capace di integrarmi davvero nel mio paese. Dovevo sempre andarmene di nuovo.

La raccolta di poesie di Pavese, Lavorare stanca, fu tradotta e pubblicata in inglese nel 1976. In poco tempo divenne il mio preferito tra i suoi libri.

Lavorare stanca è la storia piuttosto libera di un ragazzo di campagna che si trasferisc­e in città. Avevo seguito anch’io lo stesso percorso, spostandom­i prima a New York City, poi a Boston e Los Angeles. Come la voce narrante delle poesie di Lavorare stanca, avevo imparato a conoscere la solitudine tragica della vita. In quelle

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