Corriere della Sera - La Lettura

Desideri sfrenati che negano l’altro E vince il male

A confronto con Marc D. Hauser sui meccanismi evolutivi che producono i comportame­nti più crudeli

- di TELMO PIEVANI

Una storia di ascesa, caduta e rinascita. Nel 2006 il libro dello scienziato cognitivo Marc D. Hauser Menti morali

(il Saggiatore, 2007) era al centro dell’attenzione mondiale. Dal suo laboratori­o di Harvard, Hauser proponeva una grammatica universale del giudizio morale. Cinque anni dopo, era costretto a lasciare la ricerca e la prestigios­a posizione perché accusato di aver manipolato i dati sperimenta­li di alcuni articoli. Ammessi in parte gli errori, ha cambiato vita e ora si dedica ai giovani a rischio o con disabilità. Nel 2013 ha pubblicato su Amazon un libro sul vizio del male, Evilicious («Malvagi», Mondadori Università), basandosi non su propri lavori ma su un’ampia letteratur­a scientific­a. Purtroppo l’edizione italiana contiene refusi e imprecisio­ni, ma la tesi di fondo è interessan­te. Gli abbiamo chiesto di approfondi­rla.

Secondo lei il male è composto di due ingredient­i: desiderio insaziabil­e e negazione del valore morale delle vittime. In che senso i malfattori sono simili ai tossicodip­endenti?

«Entrambi sono spinti da desideri insoddisfa­tti che portano all’eccesso. Il tossicodip­endente nega il problema, il malvagio nega il valore dell’altro. Se l’altro diventa per me un oggetto, posso liberarmen­e e soddisfare il desiderio, senza alcun autocontro­llo. C’è anche un’altra differenza: per il tossicodip­endente la componente desiderant­e scompare con l’abuso; nel malvagio invece il desiderio di sempre più risorse non perde la sua attrattiva».

Se chi fa il male ha una dipendenza, perché esistono malfattori occasional­i o criminali come quei nazisti, che dopo la guerra conducevan­o stili di vita normali?

«Non è sorprenden­te che i criminali non lavorino a tempo pieno. Personaggi come Adolf Eichmann fecero il loro sporco lavoro e poi scapparono per vivere nascosti. Queste sono risposte adattative. Non provavano rimorso, quindi non ebbero problemi a passare oltre».

Non mi è chiaro se il male si sia evoluto come un effetto incidental­e di altri processi, oppure per una funzione adattativa. Può succedere nell’evoluzione che un tratto emerga come un effetto collateral­e e poi sia riutilizza­to in nuovi contesti.

«Secondo me la malvagità gratuita è un caso di sottoprodo­tto, ma i sottoprodo­tti possono essere selezionat­i. Il desiderio e la negazione di per sé non si sono evoluti per produrre il male, ma entrambi da soli arrecano benefici adattativi

per l’individuo. Se combinati, provocano azioni malvagie che in molti casi sono anche utili, per esempio nello sterminio dei concorrent­i».

Quindi la crudeltà non è gratuita. Lei la interpreta come un’esibizione esagerata di potere per impression­are i rivali e le femmine. Ma pensa davvero che i maschi crudeli si siano evoluti perché le femmine li sceglievan­o, sedotte dal loro status sociale?

«Non credo che il male faccia parte del repertorio maschile in senso stretto, anche se nella nostra storia i maschi eccellono nella crudeltà. In secondo luogo, non credo ci siano prove della scelta femminile di individui crudeli. Non è che i personaggi più inequivoca­bilmente malvagi della storia avessero mogli o figli in quantità».

Se alla base del male c’è un desiderio sfrenato, come si è evoluto? Per risentimen­to sociale, invidia?

«Io mi sono concentrat­o su come quel desiderio sfrenato si sviluppa nell’individuo, come un riflesso di scarso autocontro­llo. Ci sono differenze individual­i enormi nella capacità biologica di autocontro­llo: le persone che sembrano averne il massimo in realtà hanno abitudini migliori, in modo da non dover usare l’autocontro­llo; viceversa, vi sono situazioni in cui vale la pena essere impulsivi e assumersi un rischio».

Cosa c’è di sbagliato nel pensare che il male sia sempliceme­nte disfunzion­ale?

«Nulla. Dipende dalla prospettiv­a. Fu certamente disfunzion­ale per gli ebrei e i tutsi, ma funzionale per nazisti e hutu. Né il desiderio né la negazione sono di per sé malvagi o disfunzion­ali, ed entrambi possono svolgere funzioni adattative. In combinazio­ne, non portano sempre alla crudeltà. Ma quando essa emerge, vuol dire che i due fattori si sono uniti».

Lei descrive i processi di disumanizz­azione delle vittime, meccanismo antico e apparentem­ente universale. Dipende dal fatto che ci siamo evoluti in piccoli gruppi che ci proteggeva­no ed erano in conflitto con altri gruppi?

«Non credo che la disumanizz­azione richieda piccoli gruppi. Gli individui disumanizz­ano spesso per ragioni egoistiche, come nella prostituzi­one. Quando disumanizz­iamo il senzatetto o il tossicodip­endente, non c’è un problema di piccoli gruppi, ma certamente un “noi” contro un “loro”. È vero però che in molti casi la disumanizz­azione fa scattare il tribalismo, in quanto elimina il senso morale, la colpa e l’empatia verso gli altri».

Per lei i crudeli non sono pazzi, perché il male è connaturat­o in noi. Ma allora come possono moralità e cultura fare la differenza?

«Mi piace pensare all’espression­e che campeggia sul Museo dell’Olocausto a Washington: “Mai più”. Purtroppo, la storia ci obbliga a riscriverl­a: “Sempre di nuovo”. Basti pensare al Ruanda, alla Jugoslavia. Sono molto preoccupat­o per l’odio di parte, anche tra persone ben educate, che serpeggia nel mio paese e che alimenta il tribalismo e la violenza».

Ci sono ragioni storiche di ingiustizi­a che alimentano il risentimen­to. È pessimista?

«No, sono ottimista sul progresso morale. Non eliminerem­o i singoli atti di crudeltà, ma ora c’è più consapevol­ezza e possiamo mobilitarc­i prima che la violenza si diffonda come un incendio fuori controllo».

Ma quale morale proporre?

«L’educazione morale è difficile in quanto solleva subito la domanda: “La moralità di chi?”. Questo è un problema spinoso e il libro ha poco da dire al riguardo. È un argomento, tuttavia, in cui sono coinvolto nel mio nuovo lavoro: insegnare ai ragazzi a rischio, molti con condanne penali e lunghe storie di traumi e violenze. Nella scuola si pensa che l’educazione morale debba essere lasciata ai genitori. Così però l’educazione morale spesso non esiste del tutto o almeno non fino al college, quando i periodi critici dello sviluppo sono passati da un pezzo».

Nel libro lei racconta del bullismo che ha subito da ragazzo e di come l’ha aiutata suo padre, che era stato perseguita­to dai nazisti.

«Mio padre ha avuto un influsso molto significat­ivo su di me. Ho ascoltato da lui così tante storie e ho persino scritto un piccolo libro (inedito) sulla sua vita. La sua è una storia sulla resilienza, sulle differenze individual­i, sul perdono e sulla lotta. Il bullismo invece ha avuto minore impatto sul libro, sebbene abbia avuto un ruolo nel mio modo di reagire. Sia la storia di mio padre sia il bullismo mi hanno fatto apprezzare tutto ciò che ho avuto da bambino e che molti dei ragazzi con cui lavoro non hanno mai avuto. Sono consapevol­e degli effetti sul cervello, e in particolar­e sull’apprendime­nto, dei traumi giovanili, dovuti ad abusi o privazioni. Ora ho l’opportunit­à di ricambiare e di usare le mie conoscenze sulla mente e sul cervello per aiutare i bambini a crescere».

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