Corriere della Sera - La Lettura
Camminare è il primo passo del pensiero
Ogni percorso disegna un mondo Tutto cominciò quando i Titani uccisero Dioniso
In un manoscritto inedito de Il
Milione Marco Polo assicura che avrebbe ricordato molte più cose se, partendo, avesse saputo di tornare indietro. Il vero titolo del suo libro è Le Divisement dou Monde, e divisare implica dividere e insieme
vedere, esprime l’idea che non sia possibile conoscere la faccia della Terra senza ridurla in parti, secondo processi che nel complesso corrispondono alla creazione di una vera e propria struttura architettonica: «Architettore chiamerò io colui, il quale saprà con certa, e maravigliosa ragione, e regola, sì con la mente, e con lo animo divisare» dirà appunto, circa due secoli dopo, Leon Battista Alberti.
Nel Novecento Ludwig Wittgenstein, all’inizio del Tractatus, avvertiva che conoscere vuol dire smembrare, pratica che per Marco Polo definiva il concreto risultato dei suoi viaggi mentre per Wittgenstein spiegava che cosa fosse la filosofia: l’«arte di fare a pezzi il mondo». Ma il viaggiatore medievale e il filosofo contemporaneo dicono la stessa cosa: si riferiscono, ciascuno per il proprio verso, a un solo processo, quello per cui cammino e conoscenza, cioè il pensiero, dipendono organicamente l’uno dall’altro. È appunto il sentiero il vettore primordiale di tale inclusivo ruolo, effettivo agente dell’identità tra le due funzioni.
Nessuna delle etimologie correnti collega la parola sentiero al sentire, al
senso, al significato. Soltanto il vecchio Niccolò Tommaseo ne riferisce la radice all’atto della divisione. È però indubbio che, come un sentiero, anche senso, a sua volta, indichi una materiale direzione, come ogni automobilista sa. E, soprattutto, non esiste procedimento razionale o sistema scientifico che non dipenda dal rigore e dalla certezza del metodo: termine che alla lettera vuol dire «quel che esiste in seguito ( metá) al viaggio a piedi ( odós) », quel che viene dopo il percorso, cioè quel che è impossibile raggiungere senza aver fatto la concreta esperienza della finitezza della nostra condizione terrestre.
Scriveva un secolo fa Paul Vidal de La Blache, inventando quel che ancora oggi si chiama geografia umana: «La nave scivola sull’acqua, i flutti spartiti riprendono la propria forma e il solco si cancella; la terra è più fedele e conserva la traccia dei cammini che di buonora gli uomini hanno calcato». È quello che già racconta un vecchissimo mito, molto caro agli orfici: la storia dell’uccisione di Dioniso (il dio che oscilla e dondola, dunque la sfera ter
restre) ad opera dei Titani, che lo lacerano in 7 brani, proprio il numero che ancora per noi corrisponde a quello dei continenti. Ma Dioniso, dio illimitato come il globo, torna in vita, perché suo fratello Apollo, dio della misura, per volere di Zeus ne ricompone il corpo riaccostandone i pezzi. Così le originarie amputazioni producono margini, limiti, linee (i sentieri) che separando definiscono le cose, sezionandole e spartendole ma allo stesso tempo collegandole tra loro e rendendo perciò di nuovo possibile la vita, la nostra. Che proprio perché retta su un sistema di limitazioni, di cui il sentiero è la manifestazione archetipica, è diversa da quella degli dei. Perciò ogni sentiero ci allontana dalla zoé, dalla vita degli immortali, e ci conduce verso il bíos, che non a caso chiamiamo vita terrena, composta da una maglia di relazioni che proprio nella rete delle prime cicatrici della Terra ha trovato il proprio impianto, la propria architettonica struttura.
Continuava Vidal: «La strada s’imprime al suolo; essa semina germi di vita: case e casali, villaggi, città». Ma non tutti i sentieri diventano strade, anzi. Il transito da un’epoca all’altra consiste, nella storia delle civiltà, proprio nel passaggio da un sistema di comunicazione all’altro, vale a dire nella trasformazione in sentieri di quelle che in precedenza erano strade. Nella seconda metà del Settecento Laurence Sterne ne fa il vero argomento, nemmeno tanto sotterraneo, della sua opera più fortunata, La vita e le opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo. L’intera modernità si fonda, al riguardo, sulla sostituzione della linea curva con la linea diritta, che significa riduzione del mondo a tempo di percorrenza, cioè a velocità, a spazio: tutte cose inconcepibili per un viaggiatore come Marco Polo. Che invece procedeva lentamente per luoghi, per ambit i c i a s c u n o d ot a t i d i u n a p r o p r i a qualità, perciò irriducibili, a differenza della logica spaziale, a un’unica metrica. Ma allora ogni soggetto era potenzialmente mobile.
Si guardi invece, sul retro di una moneta italiana da un euro, il cosiddetto «uomo vitruviano» disegnato alla fine del Quattrocento da Leonardo da Vinci: forse agitando come fa le braccia arriverà persino a volare ma è chiaro che gli è impossibile fare un solo passo. A differenza di quello medievale, insomma, il soggetto moderno è statico, immobile. Si tratta, per quanto riguarda la concezione del mondo, del paradosso fondativo della moder