Corriere della Sera - La Lettura

Camminare è il primo passo del pensiero

Ogni percorso disegna un mondo Tutto cominciò quando i Titani uccisero Dioniso

- di FRANCO FARINELLI

In un manoscritt­o inedito de Il

Milione Marco Polo assicura che avrebbe ricordato molte più cose se, partendo, avesse saputo di tornare indietro. Il vero titolo del suo libro è Le Divisement dou Monde, e divisare implica dividere e insieme

vedere, esprime l’idea che non sia possibile conoscere la faccia della Terra senza ridurla in parti, secondo processi che nel complesso corrispond­ono alla creazione di una vera e propria struttura architetto­nica: «Architetto­re chiamerò io colui, il quale saprà con certa, e maraviglio­sa ragione, e regola, sì con la mente, e con lo animo divisare» dirà appunto, circa due secoli dopo, Leon Battista Alberti.

Nel Novecento Ludwig Wittgenste­in, all’inizio del Tractatus, avvertiva che conoscere vuol dire smembrare, pratica che per Marco Polo definiva il concreto risultato dei suoi viaggi mentre per Wittgenste­in spiegava che cosa fosse la filosofia: l’«arte di fare a pezzi il mondo». Ma il viaggiator­e medievale e il filosofo contempora­neo dicono la stessa cosa: si riferiscon­o, ciascuno per il proprio verso, a un solo processo, quello per cui cammino e conoscenza, cioè il pensiero, dipendono organicame­nte l’uno dall’altro. È appunto il sentiero il vettore primordial­e di tale inclusivo ruolo, effettivo agente dell’identità tra le due funzioni.

Nessuna delle etimologie correnti collega la parola sentiero al sentire, al

senso, al significat­o. Soltanto il vecchio Niccolò Tommaseo ne riferisce la radice all’atto della divisione. È però indubbio che, come un sentiero, anche senso, a sua volta, indichi una materiale direzione, come ogni automobili­sta sa. E, soprattutt­o, non esiste procedimen­to razionale o sistema scientific­o che non dipenda dal rigore e dalla certezza del metodo: termine che alla lettera vuol dire «quel che esiste in seguito ( metá) al viaggio a piedi ( odós) », quel che viene dopo il percorso, cioè quel che è impossibil­e raggiunger­e senza aver fatto la concreta esperienza della finitezza della nostra condizione terrestre.

Scriveva un secolo fa Paul Vidal de La Blache, inventando quel che ancora oggi si chiama geografia umana: «La nave scivola sull’acqua, i flutti spartiti riprendono la propria forma e il solco si cancella; la terra è più fedele e conserva la traccia dei cammini che di buonora gli uomini hanno calcato». È quello che già racconta un vecchissim­o mito, molto caro agli orfici: la storia dell’uccisione di Dioniso (il dio che oscilla e dondola, dunque la sfera ter

restre) ad opera dei Titani, che lo lacerano in 7 brani, proprio il numero che ancora per noi corrispond­e a quello dei continenti. Ma Dioniso, dio illimitato come il globo, torna in vita, perché suo fratello Apollo, dio della misura, per volere di Zeus ne ricompone il corpo riaccostan­done i pezzi. Così le originarie amputazion­i producono margini, limiti, linee (i sentieri) che separando definiscon­o le cose, sezionando­le e spartendol­e ma allo stesso tempo collegando­le tra loro e rendendo perciò di nuovo possibile la vita, la nostra. Che proprio perché retta su un sistema di limitazion­i, di cui il sentiero è la manifestaz­ione archetipic­a, è diversa da quella degli dei. Perciò ogni sentiero ci allontana dalla zoé, dalla vita degli immortali, e ci conduce verso il bíos, che non a caso chiamiamo vita terrena, composta da una maglia di relazioni che proprio nella rete delle prime cicatrici della Terra ha trovato il proprio impianto, la propria architetto­nica struttura.

Continuava Vidal: «La strada s’imprime al suolo; essa semina germi di vita: case e casali, villaggi, città». Ma non tutti i sentieri diventano strade, anzi. Il transito da un’epoca all’altra consiste, nella storia delle civiltà, proprio nel passaggio da un sistema di comunicazi­one all’altro, vale a dire nella trasformaz­ione in sentieri di quelle che in precedenza erano strade. Nella seconda metà del Settecento Laurence Sterne ne fa il vero argomento, nemmeno tanto sotterrane­o, della sua opera più fortunata, La vita e le opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo. L’intera modernità si fonda, al riguardo, sulla sostituzio­ne della linea curva con la linea diritta, che significa riduzione del mondo a tempo di percorrenz­a, cioè a velocità, a spazio: tutte cose inconcepib­ili per un viaggiator­e come Marco Polo. Che invece procedeva lentamente per luoghi, per ambit i c i a s c u n o d ot a t i d i u n a p r o p r i a qualità, perciò irriducibi­li, a differenza della logica spaziale, a un’unica metrica. Ma allora ogni soggetto era potenzialm­ente mobile.

Si guardi invece, sul retro di una moneta italiana da un euro, il cosiddetto «uomo vitruviano» disegnato alla fine del Quattrocen­to da Leonardo da Vinci: forse agitando come fa le braccia arriverà persino a volare ma è chiaro che gli è impossibil­e fare un solo passo. A differenza di quello medievale, insomma, il soggetto moderno è statico, immobile. Si tratta, per quanto riguarda la concezione del mondo, del paradosso fondativo della moder

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