Corriere della Sera - La Lettura
Le maratone si fermano I maratoneti mai
Arte marziale, non solo corsa: e anche ora che non si può gareggiare l’atleta sfida sé stesso
Dare una forma, e quindi una misura, a un gesto che tenderebbe all’infinito. Nasce così la maratona. Fissare una distanza, un limite che tenga fuori la coazione a ripetere, la corsa senza fine, l’imitazione del moto perpetuo delle stelle, in fondo, la pulsione di morte. Non a caso questa disciplina prende origine dalla leggenda del soldato Filippide che torna di corsa ad Atene da Maratona, dopo la battaglia eponima, per portare il messaggio della vittoria sui persiani e, com’era prevedibile, muore subito dopo l’annuncio.
Detta così, l’origine sarebbe dunque un’impresa estrema, e in effetti mortale, compiuta in uno slancio di gioia. I 40 chilometri che separano le due città greche sono diventati 42.195 metri all’Olimpiade di Londra del 1908, per esigenze, già all’epoca, di show business. Tale era infatti la distanza, in seguito ufficializzata anche per le manifestazioni successive, che divideva lo stadio di Londra dal castello di Windsor, residenza reale altamente scenografica sul cui viale d’ingresso era stata tracciata la linea di partenza. Anche qui aleggia il fantasma del trapasso: il panettiere italiano Dorando Pietri vince e sviene dopo il traguardo. Ha percorso gli ultimi 500 metri in dieci minuti, cadendo 4 volte, e ogni volta è stato aiutato e sorretto dai giudici che poi, ai reclami delle altre nazioni, saranno costretti a squalificarlo.
Eppure un maratoneta non dà mai l’impressione di morire. La sua andatura appare, come già detto, programmata per l’infinito. L’impressione che si ha, guardandolo, è che potrebbe continuare così per sempre. Il che è dovuto alle sue capacità di controllo, alla sua consuetudine con il calcolo e la sofferenza. Come mi è capitato di dire in molte occasioni, la maratona assomiglia più a un’arte marziale che a uno sport. Chi la pratica compie una scelta estetica e in certo modo filosofica: conoscere il proprio corpo da dentro, anziché da fuori.
Il body-builder, ad esempio, mentre lavora si osserva allo specchio; il maratoneta non ha bisogno di guardarsi, il maratoneta si ascolta. Segue il battito del cuore, il ritmo del respiro, presta attenzione agli avampiedi, al modo in cui dialogano con lo sterrato o l’asfalto, la salita o la discesa, sente (nel senso che ne è cosciente, la
sa in corso) la trasformazione catabolica di ossigeno e zucchero in energia.
Il suo è senza dubbio un esercizio mentale, se per mente intendiamo il sistema del corpo che pensa. Attraverso l’allenamento deve trovare l’andatura che gli consentirà di coprire l’intera distanza nel minor tempo possibile. Deve trovare l’andatura a cui può resistere per 42.195 metri. Per i campioni equivale a circa 3 minuti al chilometro ma ognuno ha la propria e a un certo punto la trova. Poi, diventando più bravo, può provare a migliorarla, ma sarà ogni volta un’andatura limite, il ritmo più alto consentito dal suo organismo per raggiungere il traguardo senza morire. Per questo si usa dire che l’avversario del maratoneta è lui stesso. Perché per tutta la gara combatte contro la tentazione di fermarsi, ovvero di assecondare la richiesta via via più pressante delle sue stesse gambe.
L’allenamento serve a respingere questa richiesta, a domare questo desiderio, a tradurre in un’esperienza ancora accettabile l’affanno di una fatica altrimenti disperante. Ecco il senso delle tabelle di allenamento, ecco il senso delle proiezioni e dei calcoli. Il maratoneta è un grande calcolatore, somma, sottrae, è sempre alle prese con le cifre dei passaggi. Domina come può il suo corpo che rischia a ogni istante di traviarlo in due direzioni opposte: da un canto, facendolo rallentare, dall’altro, facendolo «scoppiare» prima dell’arrivo in preda a un’esaltazione dionisiaca. Lo sforzo del maratoneta è, al contrario, precipuamente apollineo: restare lucidi dal primo all’ultimo metro, gestire la follia del corpo, tenerla sempre a un soffio dal suo impazzimento definitivo.
Per questo risultano ancora più straordinarie le performance dei professionisti che, oltre all’avversario per così dire interiore, devono affrontare gli avversari veri, mostrandosi pronti a rallentamenti e accelerazioni, cambi di ritmo che possono minare la propria tenuta (e in effetti prima o poi finiscono per minarla, a tutti tranne che al vincitore).
Ora c’è il gps, c’è il cardiofrequenzimetro, c’è il conta calorie, c’è la corsa come fenomeno di massa. Ma l’esercizio del maratoneta non cambia, resta comunque un’esperienza individuale legata all’ascolto. Il che è un conforto non da poco, se consideriamo l’incertezza del futuro più immediato, con la sospensione di ogni manifestazione sportiva e l’avvio di una stagione di corse in solitaria.
Il 1° novembre si sarebbe disputata la cinquantesima edizione della maratona di New York, per molti obiettivo apicale dell’esistenza. L’organizzazione ha restituito i soldi dell’iscrizione ai 55 mila partecipanti. Torneranno le competizioni con migliaia di atleti? Verranno ripensate? Si faranno scaglionate in piccoli gruppi per mantenere il distanziamento? Si partirà uno alla volta come nelle cronometro del ciclismo? Si gareggerà da remoto, ognuno sul proprio tapis
roulant? Difficile dirlo, è una delle tante cose avvolte nell’ombra del mondo che verrà, e di certo non la più importante.
Ma se mancano le maratone, i maratoneti restano: per il momento è questa la consolazione. Fosse possibile, sarebbero pronti a intrupparsi di nuovo nelle gabbie di partenza, ma non hanno mai amato le folle, preferiscono la solitudine. I maratoneti sono cercatori, smilzi rabdomanti che avanzano sul bordo strada.