Corriere della Sera - La Lettura
Le nuove metamorfosi dei dialetti
Credevamo fossero defunti. Invece no: i dialetti non solo continuano a essere parlati, ma hanno imparato a vivere — in ottima salute — nel mondo dei social, nel digitale, nella musica, nella pubblicità, non solo nel cinema e nella tv. Una contaminazione continua. Perché contaminati, oggi, siamo noi
Dai romanzi alle serie televisive, dalle canzoni ai social network: la nuova vita dei dialetti è negli occhi e nelle orecchie — ma soprattutto sulla lingua — di tutti noi. Per capire com’è cambiato nell’ultimo mezzo secolo il rapporto tra italiani, italiano e dialetto si può partire da un documentario Rai del 1969: L’Italia dei dialetti. In quelle sei puntate, realizzate con la consulenza di Giacomo Devoto (all’epoca presidente dell’Accademia della Crusca), il dialetto appare come qualcosa di arcaico: qualcosa da tramandare nella memoria, ma al tempo stesso da superare in nome della modernità. Da una parte il dialetto rurale di un mondo che andava scomparendo, dall’altra le grandi città del triangolo industriale Milano-TorinoGenova, in cui i flussi dell’immigrazione stavano modificando tutto il panorama linguistico. «C’è ancora qualcuno che parla milanese?». «No», risponde un signore in piazza Duomo: «Nessuno, nessuno. Anzi, io mi meraviglio quando trovo qualcuno perché mi sfogo. Siamo troppo pochi: buoni magari, ma pochi».
Da una parte la borghesia urbana, determinata nell’educare i figli alla lingua nazionale («In casa, italiano italiano», risponde una signora di Verona: «Soprattutto ai bambini, per la scuola e poi perché si trovan meglio nella vita»). Dall’altra, una scuola elementare della Basilicata in cui gli alunni arrivavano in classe dopo aver pascolato il gregge, parlando solo in dialetto. Un dialetto che ancora divideva e infastidiva, specie se non era il proprio. «Ad esempio, quel film con Sophia Loren: C’era una volta, che è parlato in stretto napoletano...», dice un’anziana signora torinese: «Io non ho capito assolutamente niente, sa cosa vuol dire? Sono venuta via disgustata. Ma insomma: siamo in Italia, cosa stiamo lì a sgonfiare con tutti questi dialetti!».
Il brandialetto
Stacco: 1992, televisione commerciale. Sophia Loren cammina in abito da sera seguita da un buffo tipo che le ripete le battute da pronunciare per lo spot di un prosciutto. Lei si siede a tavola, sorride alla telecamera, ignora quegli insipidi slogan e dice solo «Accattatevillo» (in napoletano: compratevelo). Ed è subito tormentone. Quattro anni dopo, i milanesissimi Articolo 31 cantano Tranqui funky: «Sai che tranqui significa tranquillo/ e su questo funky mi sciallo e non strillo/ come il Parmacotto: accattatevillo!». Inglese musicale, linguaggio giovanile e dialetto mediatico: o meglio, dialetto come strumento di marketing. Le premesse ci sono già tutte. E infatti, nel 2015 ecco le dialettichette: le etichette della Nutella con 135 espressioni dialettali di 16 diverse aree linguistiche. Da ostregheta a jamm’bbèll’, da ajò! a neh?!, da alura? ad anvedi!. «Nutella parla come te», si legge nella pagina di lancio della campagna pubblicitaria: «Scopri con Nutella l’Italia dei dialetti».
Una nuova Italia dei dialetti. Quella in cui dal 2017 sono scritte in dialetto anche le frasi di certi biglietti dei Baci Perugina (dal milanese « I innamoraa non guarden minga a spend » al napoletano « Ògne scarrafóne è bèll’ a màmma sóia ») e le parole vernacolari si possono utilizzare dal 2019 anche sul tabellone di una nuova edizione dello Scrabble (il gioco dello «Scarabeo»), grazie alle carte «Dialetto» e «Gioca come mangi». In un sondaggio realizzato su Instagram dall’azienda di smartphone Wiko lo scorso 17 gennaio, in occasione dell’ottava Giornata nazionale del dialetto, oltre il 60% dei partecipanti dichiara di usare il proprio dialetto quando parla con gli amici o quando usa messaggi vocali e di ricorrere spesso a espressioni provenienti da altri dialetti. L’idea è quella di un linguaggio più colorito e spontaneo, efficace anche negli hashtag: al punto che «Una parola in dialetto vale più di 1.000 frasi o sinonimi in italiano». Il dialetto come un brand che crea la giusta atmosfera.
La dialettiquette
Nel codice della comunicazione telematica, d’altronde — nelle nostre chat, nei nostri messaggi e messaggini — il dialetto è ormai entrato stabilmente. Parte integrante di quella imitazione del parlato che accorcia le distanze e simula spontaneità, in nome del principio «scrivi come mangi». Quasi una sorta di aggiornamento o integrazione rispetto alle regole di quella netiquette che rappresenta il galateo per comunicare in rete. Dalle «dialettichette» alla «dialettiquette». È proprio nella rete, in effetti, che il dialetto sembra aver trovato un nuovo regno. E non solo nelle tante pagine in cui, discutendo di dialetti, si continuano ad alimentare pregiudizi e fraintendimenti (come il classico «questo non è un dialetto, ma una lingua»: tutti i dialetti italiani sono, tecnicamente, lingue). Ma anche nei social network, in cui grande successo riscuotono pagine e account come Romeismore o i vari Siciliansays, Sardiniansays e Spokentrentino, Spokenveneto. A ogni post corrisponde una parola o un’espressione dialettale tradotta in un inglese
maccheronico: « #Calabriansays Non viju l’ura. Dont’see hour », « #Romagnasays Mo la miseria! But the mi
sery », « #Udinesays Cirì gnòt. To search the night » (letteralmente, in effetti, è «Cercar notte» ma vale «Cercar guai»). Qualche anno fa c’era stato persino il tentativo di lanciare una piattaforma tutta dialettale: Facecjoc ( cjoc in friulano significa «ubriaco»). Da tempo, d’altra parte, esistono diverse versioni dialettali di Wikipedia. La voce Google di quella piemontese, ad esempio, comincia così: « Google a l’é ’n motor d’arserca për la Ragnà che a sërca pàgine, figure, liste postaj, neuve, carte, film ». Dal folk al rap
E allora «Posso, posso, posso, posso, posso/ stringerti la mano/ e dirti cose che non/ posso, posso, posso, posso, posso/ dire in italiano/ ma in romano sì che/ posso, posso, posso, posso, posso». Così canta Carl Brave: come se il romano (perché non romanesco?) fosse davvero un dialetto così lontano dall’italiano e non fosse il risultato di cinque secoli di progressiva e inesorabile toscanizzazione. Analoghe rivendicazioni tornano ultimamente nei testi di molti rapper e trapper, come il napoletano Vale Lambo di Over fai: « T fet o ciat co dialett/ faccij addurà o per a to stival/ e mo parln o dialett, tò,
tò » («Ti puzza il fiato col dialetto/ faccio annusare il piede a tutto lo stivale/ e ora parlano il dialetto»).
Trent’anni fa, il dialetto — nelle canzoni di gruppi come i piemontesi Mau Mau, i veneti Pitura Freska, i napoletani 99 Posse e Almamegretta, i salentini Sud Sound System — aveva un valore diverso: si contrapponeva all’italiano omologato della cultura dominante e rifletteva le posizioni antagoniste dei centri sociali. Dai centri sociali ai social network. Un percorso tutto sommato coerente, con il quale il dialetto si è allontanato sempre di più da una vecchia dimensione folkloristica ed è via via diventato tutt’uno con la società in cui viviamo. Tutt’uno con il nostro tempo e le sue commistioni. Se il napolen
glish di Pino Daniele suonava negli anni Settanta come una forma di ribellione espressiva, quello di Liberato risulta un’eco — quasi mimetica, comunque più conformistica — della lingua di tutti giorni. « Pecché m’è miso int’o striit?/ cient’ lacrime ngopp a stu beat/ No no no ammo’ nun se fa/ Ma che so sti tarantell/ staje cu isso ma poi chiamme ’ccà »( Intostreet). Il dialetto geniale
Proprio il napoletano appare, negli ultimi anni, uno dei dialetti mediaticamente più fortunati. Non solo nelle canzoni, ma anche nei fumetti (persino in «Topolino»), al cinema e in tv. A confermarlo, i clamorosi casi delle serie tratte da Gomorra di Roberto Saviano (Mondadori, 2006; il film di Matteo Garrone è del 2008; la serie su Sky Italia dal 2014) e dall’Amica geniale di Elena Ferrante (la quadrilogia è stata pubblicata dalle Edizioni e/o tra il 2011 e il 2014; la prima stagione della serie è andata in onda sulla Rai nel 2018). In entrambi i casi, il passaggio dalla pagina allo schermo ha comportato il recupero di una dimensione dialettale che in origine era solo accennata o addirittura rimossa. Nei libri di Ferrante — in particolare — l’italiano tende a espellere il dialetto, pur rendendolo protagonista della storia. Eccezion fatta per poche macchie di colore (come l’uso di fatica per «lavoro» o il turpiloquente strunz), il dialetto è circoscritto quasi sempre nella gabbia della notazione metalinguistica. «Parlava sempre in dialetto come noi tutti ma all’occorrenza sfoderava un italiano da libro», «Passai al dialetto senza accorgermene, scaricai insulti sui poliziotti», «Con la rabbia che cominciava a farsi strada insieme al dialetto più volgare».
Nella serie tv, invece, «la scelta (pare anche sollecitata dalla produzione internazionale) è stata quella paradossalmente opposta — ricorda Lorenzo Coveri — di una integrale dialettalità, tanto da richiedere per la maggior parte del girato l’utilizzo dei sottotitoli in italiano». Un napoletano legato a quell’ambiente e soprattutto a quell’epoca. Molto diverso dal dialetto della serie Gomorra, a cui va riconosciuto — secondo Nicola De Blasi — il «grande merito artistico (e sociolinguistico) di aver reso evidente, attraverso la visione e l’ascolto, che in una grande città gli usi linguistici non sono (e non possono essere) uniformi, né sul versante dell’italiano, né su quello del dialetto». Una direzione presa poi dalla stessa scrittura di Saviano. «Una delle sfide di questo romanzo è l’uso del dialetto», si legge nella Nota dell’autore che chiude — identica — La paranza dei bambini (Feltrinelli, 2016) e Bacio feroce (Feltrinelli, 2017). Un dialetto continuamente contaminato con l’italiano, ma anche con l’inglese (« Chest’è ’a delivery! »), dato che i «paranz i n i » v i vo n o t r a t u to r i a l d i Yo u T u b e e o r d i n i s u « Amazòn », puniscono per un post su Facebook (in questo caso non è « tutt’a post ») e comunicano tra loro in una chat di WhatsApp.
L’italiano glocale
La questione non riguarda solo le rappresentazioni artistiche. Investe direttamente l’evoluzione dell’italiano parlato, in cui l’elemento locale convive oggi con gli anglicismi tipici di un mondo globale: quelli dello sport, dello spettacolo, della politica, della moda, del cinema e ovviamente della tecnologia. Inglese e dialetto: globale e locale, per un italiano sempre più glocale. Glocalizzazione linguistica che allo stato attuale appare nettamente sbilanciata verso il secondo elemento. L’influsso dell’inglese riguarda soltanto il lessico, e la percentuale complessiva di parole inglesi presenti nei nostri dizionari non supera il 3%. Quasi un terzo degli italiani, invece, dichiara di esprimersi — quando si trova in famiglia o tra amici — sia in italiano sia in dialetto. Cioè mescolando e alternando liberamente le due lingue, che si influenzano a vicenda con un’interferenza estesa a tutti i livelli: oltre al lessico, anche l’intonazione, la fonetica, la grammatica, la sintassi.
« Un’avventura vera meglio di Biutifùl/ ha aperto Gigi innamorato mio con una faccia da interro e gli sono venuti due lacrimoni gonfi gonfi parianta piras », che sembrano pere. Era il 1996 e Sergio Atzeni portava nella prosa scandita in strofe di Bellas mariposas (Sellerio) la voce di una dodicenne della periferia cagliaritana. Un monologo dalla cadenza orale in cui l’assoluta permeabilità tra lingua e dialetto va di pari passo con la presenza di gergalismi (« mi piace tutta la greffa fighi chi non lo sa il mestiere che fanno? Però la giusta non li cucca »), anglicismi ( i gins e i bazuka, puscer e rockstar) e marchi commerciali («gli Sciulz all’olandese bianchi»).
Dialetti reloaded
In quello stesso anno, 1996, Andrea Camilleri pubblicava (sempre per Sellerio) il secondo e il terzo romanzo della serie di Montalbano: Il cane di terracotta e Il ladro di merendine, usciti a due anni di distanza dal primo: La forma dell’acqua. Ancora due anni e, con La voce del violino, sarebbe cominciato l’inarrestabile successo di quei libri in cui l’impasto d’italiano e siciliano crea una lingua che — notava Corrado Augias — «avvolge il lettore come una soffice veste da camera». Uno straordinario successo ribadito in queste settimane dal postumo Riccardino, tra i primi in classifica in due versioni, una delle quali mostra ai lettori proprio il lavoro di Camilleri sulla lingua.
Eppure, ancora nel 1997 — alla pubblicazione dei dati Istat sul modo di parlare degli italiani — i grandi quotidiani titolavano «Dialetti fuori moda», «Il dialetto piace sempre meno» o addirittura «Addio dialetto». Non ci si era resi conto che il diffondersi dell’italiano stava cambiando, insieme alla forma dei dialetti (sempre più italianizzati), anche la sua percezione collettiva: non più marca d’inferiorità sociale, ma segnale di confidenza, emotività, ironia. Un nuovo panorama linguistico, tracciato in modo molto netto proprio dalle successive inchieste Istat, fino a quella più recente del 2015. L’uso prevalente o esclusivo del dialetto quando ci si trova a parlare con estranei è dichiarato ormai da un’esigua percentuale d’intervistati (4,2%; nel 2000 era il 6,8%; nel 1974, secondo la Doxa, ancora il 29%). Quando ci si trova a parlare in famiglia o tra amici, però, le cose cambiano parecchio. In quei casi chi dichiara di parlare solo o prevalentemente in dialetto è rispettivamente il 14,1% e il 12,1%, a fronte di un 45,9% e 49,6% che dichiara di parlare solo o prevalentemente italiano. Ma il dato più interessante è un altro. Fin dal 2000 infatti, come s’è già accennato, una parte di popolazione oscillante fra il 32 e il 33% dichiara che in quelle due situazioni — cioè quando si trova a parlare in modo spontaneo, rilassato, informale — si esprime sia in italiano sia in dialetto.
Lucciole per lanterne
La situazione, certo, è diversa da regione a regione: il dialetto risulta molto usato in quasi tutto il Sud e nel Veneto; molto poco usato in Liguria, in Lombardia e nel Lazio. Nondimeno, resta valido quello che Gaetano Berruto scrisse nel 2002, riconoscendo che la prospettiva della tanto paventata morte dei dialetti era ormai definitivamente superata: «Un motto di molti parlanti nell’Italia alle soglie del terzo Millennio sembra essere “ora che sappiamo parlare italiano, possiamo anche (ri)parlare dialetto”».
«La tragedia della perdita del dialetto» che Pasolini denunciava alla metà degli anni Settanta, dopo averla annunciata già dieci anni prima, era tutt’uno — ai suoi occhi — con «il problema di una sopravvivenza culturale e antropologica». Rappresentava simbolicamente la fine del mondo contadino, quello in cui — per citare un altro suo celebre articolo di quegli anni — c’erano ancora le lucciole. Poi divenne uno dei tanti luoghi comuni sulla lingua: come la morte del congiuntivo o del punto e virgola o la nascita dell’itangliano. «La percezione dell’intensità del cambiamento più volte, tra anni Sessanta e Settanta, ha spinto a parlare di morte dei dialetti. Ciò è e si è rivelato inesatto», afferma recisamente Tullio De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia repubbli
cana (Laterza, 2014).
Fuori da ogni recinto ideologico — dal «genocidio culturale» di cui parlava Pasolini, ma anche dalla visione identitaria e separatista della prima Lega — i dialetti sono rimasti un elemento fondamentale nella società e nella cultura italiana. Trasformandosi, contaminandosi, cambiando nel tempo: proprio come succede a tutte le lingue vive; passando, per usare la terminologia degli studi più recenti, da «dialetti arcaici» a «dialetti moderni». Un’evoluzione parallela a quella dell’italiano, che da lingua letteraria — arcaizzante ed esclusiva — è diventato nel frattempo una lingua moderna, mescidata e — finalmente — democratica.
Giuseppe Antonelli