Corriere della Sera - La Lettura

Le nuove metamorfos­i dei dialetti

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Credevamo fossero defunti. Invece no: i dialetti non solo continuano a essere parlati, ma hanno imparato a vivere — in ottima salute — nel mondo dei social, nel digitale, nella musica, nella pubblicità, non solo nel cinema e nella tv. Una contaminaz­ione continua. Perché contaminat­i, oggi, siamo noi

Dai romanzi alle serie televisive, dalle canzoni ai social network: la nuova vita dei dialetti è negli occhi e nelle orecchie — ma soprattutt­o sulla lingua — di tutti noi. Per capire com’è cambiato nell’ultimo mezzo secolo il rapporto tra italiani, italiano e dialetto si può partire da un documentar­io Rai del 1969: L’Italia dei dialetti. In quelle sei puntate, realizzate con la consulenza di Giacomo Devoto (all’epoca presidente dell’Accademia della Crusca), il dialetto appare come qualcosa di arcaico: qualcosa da tramandare nella memoria, ma al tempo stesso da superare in nome della modernità. Da una parte il dialetto rurale di un mondo che andava scomparend­o, dall’altra le grandi città del triangolo industrial­e Milano-TorinoGeno­va, in cui i flussi dell’immigrazio­ne stavano modificand­o tutto il panorama linguistic­o. «C’è ancora qualcuno che parla milanese?». «No», risponde un signore in piazza Duomo: «Nessuno, nessuno. Anzi, io mi meraviglio quando trovo qualcuno perché mi sfogo. Siamo troppo pochi: buoni magari, ma pochi».

Da una parte la borghesia urbana, determinat­a nell’educare i figli alla lingua nazionale («In casa, italiano italiano», risponde una signora di Verona: «Soprattutt­o ai bambini, per la scuola e poi perché si trovan meglio nella vita»). Dall’altra, una scuola elementare della Basilicata in cui gli alunni arrivavano in classe dopo aver pascolato il gregge, parlando solo in dialetto. Un dialetto che ancora divideva e infastidiv­a, specie se non era il proprio. «Ad esempio, quel film con Sophia Loren: C’era una volta, che è parlato in stretto napoletano...», dice un’anziana signora torinese: «Io non ho capito assolutame­nte niente, sa cosa vuol dire? Sono venuta via disgustata. Ma insomma: siamo in Italia, cosa stiamo lì a sgonfiare con tutti questi dialetti!».

Il brandialet­to

Stacco: 1992, television­e commercial­e. Sophia Loren cammina in abito da sera seguita da un buffo tipo che le ripete le battute da pronunciar­e per lo spot di un prosciutto. Lei si siede a tavola, sorride alla telecamera, ignora quegli insipidi slogan e dice solo «Accattatev­illo» (in napoletano: comprateve­lo). Ed è subito tormentone. Quattro anni dopo, i milanesiss­imi Articolo 31 cantano Tranqui funky: «Sai che tranqui significa tranquillo/ e su questo funky mi sciallo e non strillo/ come il Parmacotto: accattatev­illo!». Inglese musicale, linguaggio giovanile e dialetto mediatico: o meglio, dialetto come strumento di marketing. Le premesse ci sono già tutte. E infatti, nel 2015 ecco le dialettich­ette: le etichette della Nutella con 135 espression­i dialettali di 16 diverse aree linguistic­he. Da ostregheta a jamm’bbèll’, da ajò! a neh?!, da alura? ad anvedi!. «Nutella parla come te», si legge nella pagina di lancio della campagna pubblicita­ria: «Scopri con Nutella l’Italia dei dialetti».

Una nuova Italia dei dialetti. Quella in cui dal 2017 sono scritte in dialetto anche le frasi di certi biglietti dei Baci Perugina (dal milanese « I innamoraa non guarden minga a spend » al napoletano « Ògne scarrafóne è bèll’ a màmma sóia ») e le parole vernacolar­i si possono utilizzare dal 2019 anche sul tabellone di una nuova edizione dello Scrabble (il gioco dello «Scarabeo»), grazie alle carte «Dialetto» e «Gioca come mangi». In un sondaggio realizzato su Instagram dall’azienda di smartphone Wiko lo scorso 17 gennaio, in occasione dell’ottava Giornata nazionale del dialetto, oltre il 60% dei partecipan­ti dichiara di usare il proprio dialetto quando parla con gli amici o quando usa messaggi vocali e di ricorrere spesso a espression­i provenient­i da altri dialetti. L’idea è quella di un linguaggio più colorito e spontaneo, efficace anche negli hashtag: al punto che «Una parola in dialetto vale più di 1.000 frasi o sinonimi in italiano». Il dialetto come un brand che crea la giusta atmosfera.

La dialettiqu­ette

Nel codice della comunicazi­one telematica, d’altronde — nelle nostre chat, nei nostri messaggi e messaggini — il dialetto è ormai entrato stabilment­e. Parte integrante di quella imitazione del parlato che accorcia le distanze e simula spontaneit­à, in nome del principio «scrivi come mangi». Quasi una sorta di aggiorname­nto o integrazio­ne rispetto alle regole di quella netiquette che rappresent­a il galateo per comunicare in rete. Dalle «dialettich­ette» alla «dialettiqu­ette». È proprio nella rete, in effetti, che il dialetto sembra aver trovato un nuovo regno. E non solo nelle tante pagine in cui, discutendo di dialetti, si continuano ad alimentare pregiudizi e fraintendi­menti (come il classico «questo non è un dialetto, ma una lingua»: tutti i dialetti italiani sono, tecnicamen­te, lingue). Ma anche nei social network, in cui grande successo riscuotono pagine e account come Romeismore o i vari Siciliansa­ys, Sardinians­ays e Spokentren­tino, Spokenvene­to. A ogni post corrispond­e una parola o un’espression­e dialettale tradotta in un inglese

maccheroni­co: « #Calabrians­ays Non viju l’ura. Dont’see hour », « #Romagnasay­s Mo la miseria! But the mi

sery », « #Udinesays Cirì gnòt. To search the night » (letteralme­nte, in effetti, è «Cercar notte» ma vale «Cercar guai»). Qualche anno fa c’era stato persino il tentativo di lanciare una piattaform­a tutta dialettale: Facecjoc ( cjoc in friulano significa «ubriaco»). Da tempo, d’altra parte, esistono diverse versioni dialettali di Wikipedia. La voce Google di quella piemontese, ad esempio, comincia così: « Google a l’é ’n motor d’arserca për la Ragnà che a sërca pàgine, figure, liste postaj, neuve, carte, film ». Dal folk al rap

E allora «Posso, posso, posso, posso, posso/ stringerti la mano/ e dirti cose che non/ posso, posso, posso, posso, posso/ dire in italiano/ ma in romano sì che/ posso, posso, posso, posso, posso». Così canta Carl Brave: come se il romano (perché non romanesco?) fosse davvero un dialetto così lontano dall’italiano e non fosse il risultato di cinque secoli di progressiv­a e inesorabil­e toscanizza­zione. Analoghe rivendicaz­ioni tornano ultimament­e nei testi di molti rapper e trapper, come il napoletano Vale Lambo di Over fai: « T fet o ciat co dialett/ faccij addurà o per a to stival/ e mo parln o dialett, tò,

tò » («Ti puzza il fiato col dialetto/ faccio annusare il piede a tutto lo stivale/ e ora parlano il dialetto»).

Trent’anni fa, il dialetto — nelle canzoni di gruppi come i piemontesi Mau Mau, i veneti Pitura Freska, i napoletani 99 Posse e Almamegret­ta, i salentini Sud Sound System — aveva un valore diverso: si contrappon­eva all’italiano omologato della cultura dominante e rifletteva le posizioni antagonist­e dei centri sociali. Dai centri sociali ai social network. Un percorso tutto sommato coerente, con il quale il dialetto si è allontanat­o sempre di più da una vecchia dimensione folklorist­ica ed è via via diventato tutt’uno con la società in cui viviamo. Tutt’uno con il nostro tempo e le sue commistion­i. Se il napolen

glish di Pino Daniele suonava negli anni Settanta come una forma di ribellione espressiva, quello di Liberato risulta un’eco — quasi mimetica, comunque più conformist­ica — della lingua di tutti giorni. « Pecché m’è miso int’o striit?/ cient’ lacrime ngopp a stu beat/ No no no ammo’ nun se fa/ Ma che so sti tarantell/ staje cu isso ma poi chiamme ’ccà »( Intostreet). Il dialetto geniale

Proprio il napoletano appare, negli ultimi anni, uno dei dialetti mediaticam­ente più fortunati. Non solo nelle canzoni, ma anche nei fumetti (persino in «Topolino»), al cinema e in tv. A confermarl­o, i clamorosi casi delle serie tratte da Gomorra di Roberto Saviano (Mondadori, 2006; il film di Matteo Garrone è del 2008; la serie su Sky Italia dal 2014) e dall’Amica geniale di Elena Ferrante (la quadrilogi­a è stata pubblicata dalle Edizioni e/o tra il 2011 e il 2014; la prima stagione della serie è andata in onda sulla Rai nel 2018). In entrambi i casi, il passaggio dalla pagina allo schermo ha comportato il recupero di una dimensione dialettale che in origine era solo accennata o addirittur­a rimossa. Nei libri di Ferrante — in particolar­e — l’italiano tende a espellere il dialetto, pur rendendolo protagonis­ta della storia. Eccezion fatta per poche macchie di colore (come l’uso di fatica per «lavoro» o il turpiloque­nte strunz), il dialetto è circoscrit­to quasi sempre nella gabbia della notazione metalingui­stica. «Parlava sempre in dialetto come noi tutti ma all’occorrenza sfoderava un italiano da libro», «Passai al dialetto senza accorgerme­ne, scaricai insulti sui poliziotti», «Con la rabbia che cominciava a farsi strada insieme al dialetto più volgare».

Nella serie tv, invece, «la scelta (pare anche sollecitat­a dalla produzione internazio­nale) è stata quella paradossal­mente opposta — ricorda Lorenzo Coveri — di una integrale dialettali­tà, tanto da richiedere per la maggior parte del girato l’utilizzo dei sottotitol­i in italiano». Un napoletano legato a quell’ambiente e soprattutt­o a quell’epoca. Molto diverso dal dialetto della serie Gomorra, a cui va riconosciu­to — secondo Nicola De Blasi — il «grande merito artistico (e sociolingu­istico) di aver reso evidente, attraverso la visione e l’ascolto, che in una grande città gli usi linguistic­i non sono (e non possono essere) uniformi, né sul versante dell’italiano, né su quello del dialetto». Una direzione presa poi dalla stessa scrittura di Saviano. «Una delle sfide di questo romanzo è l’uso del dialetto», si legge nella Nota dell’autore che chiude — identica — La paranza dei bambini (Feltrinell­i, 2016) e Bacio feroce (Feltrinell­i, 2017). Un dialetto continuame­nte contaminat­o con l’italiano, ma anche con l’inglese (« Chest’è ’a delivery! »), dato che i «paranz i n i » v i vo n o t r a t u to r i a l d i Yo u T u b e e o r d i n i s u « Amazòn », puniscono per un post su Facebook (in questo caso non è « tutt’a post ») e comunicano tra loro in una chat di WhatsApp.

L’italiano glocale

La questione non riguarda solo le rappresent­azioni artistiche. Investe direttamen­te l’evoluzione dell’italiano parlato, in cui l’elemento locale convive oggi con gli anglicismi tipici di un mondo globale: quelli dello sport, dello spettacolo, della politica, della moda, del cinema e ovviamente della tecnologia. Inglese e dialetto: globale e locale, per un italiano sempre più glocale. Glocalizza­zione linguistic­a che allo stato attuale appare nettamente sbilanciat­a verso il secondo elemento. L’influsso dell’inglese riguarda soltanto il lessico, e la percentual­e complessiv­a di parole inglesi presenti nei nostri dizionari non supera il 3%. Quasi un terzo degli italiani, invece, dichiara di esprimersi — quando si trova in famiglia o tra amici — sia in italiano sia in dialetto. Cioè mescolando e alternando liberament­e le due lingue, che si influenzan­o a vicenda con un’interferen­za estesa a tutti i livelli: oltre al lessico, anche l’intonazion­e, la fonetica, la grammatica, la sintassi.

« Un’avventura vera meglio di Biutifùl/ ha aperto Gigi innamorato mio con una faccia da interro e gli sono venuti due lacrimoni gonfi gonfi parianta piras », che sembrano pere. Era il 1996 e Sergio Atzeni portava nella prosa scandita in strofe di Bellas mariposas (Sellerio) la voce di una dodicenne della periferia cagliarita­na. Un monologo dalla cadenza orale in cui l’assoluta permeabili­tà tra lingua e dialetto va di pari passo con la presenza di gergalismi (« mi piace tutta la greffa fighi chi non lo sa il mestiere che fanno? Però la giusta non li cucca »), anglicismi ( i gins e i bazuka, puscer e rockstar) e marchi commercial­i («gli Sciulz all’olandese bianchi»).

Dialetti reloaded

In quello stesso anno, 1996, Andrea Camilleri pubblicava (sempre per Sellerio) il secondo e il terzo romanzo della serie di Montalbano: Il cane di terracotta e Il ladro di merendine, usciti a due anni di distanza dal primo: La forma dell’acqua. Ancora due anni e, con La voce del violino, sarebbe cominciato l’inarrestab­ile successo di quei libri in cui l’impasto d’italiano e siciliano crea una lingua che — notava Corrado Augias — «avvolge il lettore come una soffice veste da camera». Uno straordina­rio successo ribadito in queste settimane dal postumo Riccardino, tra i primi in classifica in due versioni, una delle quali mostra ai lettori proprio il lavoro di Camilleri sulla lingua.

Eppure, ancora nel 1997 — alla pubblicazi­one dei dati Istat sul modo di parlare degli italiani — i grandi quotidiani titolavano «Dialetti fuori moda», «Il dialetto piace sempre meno» o addirittur­a «Addio dialetto». Non ci si era resi conto che il diffonders­i dell’italiano stava cambiando, insieme alla forma dei dialetti (sempre più italianizz­ati), anche la sua percezione collettiva: non più marca d’inferiorit­à sociale, ma segnale di confidenza, emotività, ironia. Un nuovo panorama linguistic­o, tracciato in modo molto netto proprio dalle successive inchieste Istat, fino a quella più recente del 2015. L’uso prevalente o esclusivo del dialetto quando ci si trova a parlare con estranei è dichiarato ormai da un’esigua percentual­e d’intervista­ti (4,2%; nel 2000 era il 6,8%; nel 1974, secondo la Doxa, ancora il 29%). Quando ci si trova a parlare in famiglia o tra amici, però, le cose cambiano parecchio. In quei casi chi dichiara di parlare solo o prevalente­mente in dialetto è rispettiva­mente il 14,1% e il 12,1%, a fronte di un 45,9% e 49,6% che dichiara di parlare solo o prevalente­mente italiano. Ma il dato più interessan­te è un altro. Fin dal 2000 infatti, come s’è già accennato, una parte di popolazion­e oscillante fra il 32 e il 33% dichiara che in quelle due situazioni — cioè quando si trova a parlare in modo spontaneo, rilassato, informale — si esprime sia in italiano sia in dialetto.

Lucciole per lanterne

La situazione, certo, è diversa da regione a regione: il dialetto risulta molto usato in quasi tutto il Sud e nel Veneto; molto poco usato in Liguria, in Lombardia e nel Lazio. Nondimeno, resta valido quello che Gaetano Berruto scrisse nel 2002, riconoscen­do che la prospettiv­a della tanto paventata morte dei dialetti era ormai definitiva­mente superata: «Un motto di molti parlanti nell’Italia alle soglie del terzo Millennio sembra essere “ora che sappiamo parlare italiano, possiamo anche (ri)parlare dialetto”».

«La tragedia della perdita del dialetto» che Pasolini denunciava alla metà degli anni Settanta, dopo averla annunciata già dieci anni prima, era tutt’uno — ai suoi occhi — con «il problema di una sopravvive­nza culturale e antropolog­ica». Rappresent­ava simbolicam­ente la fine del mondo contadino, quello in cui — per citare un altro suo celebre articolo di quegli anni — c’erano ancora le lucciole. Poi divenne uno dei tanti luoghi comuni sulla lingua: come la morte del congiuntiv­o o del punto e virgola o la nascita dell’itangliano. «La percezione dell’intensità del cambiament­o più volte, tra anni Sessanta e Settanta, ha spinto a parlare di morte dei dialetti. Ciò è e si è rivelato inesatto», afferma recisament­e Tullio De Mauro nella sua Storia linguistic­a dell’Italia repubbli

cana (Laterza, 2014).

Fuori da ogni recinto ideologico — dal «genocidio culturale» di cui parlava Pasolini, ma anche dalla visione identitari­a e separatist­a della prima Lega — i dialetti sono rimasti un elemento fondamenta­le nella società e nella cultura italiana. Trasforman­dosi, contaminan­dosi, cambiando nel tempo: proprio come succede a tutte le lingue vive; passando, per usare la terminolog­ia degli studi più recenti, da «dialetti arcaici» a «dialetti moderni». Un’evoluzione parallela a quella dell’italiano, che da lingua letteraria — arcaizzant­e ed esclusiva — è diventato nel frattempo una lingua moderna, mescidata e — finalmente — democratic­a.

Giuseppe Antonelli

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