Corriere della Sera - La Lettura
Alessandro Benvenuti: «Pièce sulla quarantena»
L’autore/regista/attore trasforma in monologo il suo diario dalla quarantena: «Si vive soltanto se si può raccontare»
In effetti forse, in mezzo a tante analisi e controanalisi, ipotesi e controipotesi, reportage del dolore e pensose riflessioni sulla fragilità umana, sul prima e sul dopo più che sul durante, ci voleva proprio un delirio. Ci voleva un’allucinazione comico-assurda consegnata alla penna di un drammaturgo e poi alla voce di un attore, come Alessandro Benvenuti, che ha tutto per risultare affabile e vicino, non assertivo né scientifico o parascientifico, non elegiaco e neanche troppo sarcastico o nichilista. Benvenuti si ritrova a suo agio nella grande maggioranza che ha optato per una cautela un po’ scettica, tendenzialmente seguendo le raccomandazioni ufficiali per non sbagliare troppo. Non i fideisti né i cosiddetti negazionisti. È l’esercito di quelli che montalianamente si spingono a dire ciò che non siamo e ciò che non vogliamo... Non siamo apocalittici e neanche integrati, ma soprattutto non vogliamo morire.
E così, sin dall’inizio della pandemia, Benvenuti, chiuso nel suo appartamento di Monteverde Vecchio a Roma, con Chiara Grazzini — che oltre a essere sua moglie è consigliera, partner, coautrice — ha cominciato a scrivere un diario, in mancanza di meglio, e cioè in mancanza del palcoscenico, del pubblico in carne e ossa, della baraonda organizzativa nei teatri di Siena di cui è direttore da un anno. Insomma, in mancanza di meglio si è messo a registrare su un quadernino il corso delle sue giornate, salvo poi farsi venire il dubbio che il meglio era lì, in quella resilienza domestica scritta a mano. Specie da quando, passata una ventina di giorni, in casa non erano più due ma tre, visto che si era aggiunta
Carlotta, la figlia fotografa e grafica. «Non è facile lavorare in famiglia — dice Benvenuti — ma da anni mi sono abituato a conciliare gli affetti con gli effetti». Insomma, Carlotta si mette a fare le fotografie della quarantena casalinga, papà Alessandro la sera racconta le sue giornate finché insieme si accorgono che quel materiale, trasmesso su Instagram e su Facebook, può servire a tenere teso il filo con il pubblico. E così il progetto si alimenta giorno dopo giorno, diventando, alla fine, qualcosa come 170 pagine di delirio buttato giù a penna: «Non volevo stare in nessuna piattaforma a far teatro, nonostante le proposte di amici cari, che mi spingevano a inventarmi qualcosa. Io sono un po’ all’antica, se devo fare teatro preferisco farlo dove c’è l’altare giusto, allora mi sono chiesto come non sparire per le persone che mi seguo
no da tanti anni: timido e riservato come sono, ho pensato di fare sentire una mia presenza affettuosa cercando di scoprirmi un po’, dimenticando la figura dell’artista e puntando di più sulla persona».
Fatto sta che nel diario si alternano cose diverse, accostate per associazione di idee o di immagini. Scene di ordinaria vita quotidiana: gli uccelli che arrivano sul balcone a becchettare i semi (tra gli altri, la coppia di tortore battezzata Thelma & Luigi…), l’esilarante passeggiata con il cane nel quartiere pieno di cani, il rituale delle pulizie e dell’ascolto delle notizie con i virologi in prima linea («cervelli che sono piramidi di sapienza»). E i ricordi d’infanzia: il chierichetto che beveva di nascosto il vinsanto dall’ampolla dell’Eucarestia. I sogni, come l’incontro con il fantasma del padre cacciatore che viaggia su una 600 in una strada di campagna: «Ma te non eri morto?», «Una volta...». La nonna Lucia, «un mini panzer», una figurina di un metro e 48 «fatta un po’ a ovetto Kinder»... Gli incubi: «Mi trovo in questa cameretta insapore... Ho un cannello infilato in gola... Ma inspiro senza panico un’aria di mare che entra dentro i polmoni». Le invettive irresistibili contro la Via Francigena e il pesce surgelato. Le citazioni ponderate, come quella conclusiva di Einstein sulla crisi che porta progressi e capacità inventiva. L’effetto è a tratti vertiginoso. Dal delirio diaristico, con la sua «sorpresa delle parole disorganizzate», nasce l’idea supplementare: uno spettacolo da portare in giro, con immagini e musiche. «Una cosa nuova per me, perché mi sono ritrovato con tutto quel materiale da elaborare, selezionare, ricucire cercando di nascondere i punti di sutura».
Il diario si potrebbe intitolare «Benvenuti in casa Benvenuti».
«Ma sì. Ho cominciato a scrivere e a condividere i pensieri che giorno per giorno si presentavano in questa situazione nuova: incredibilmente questi appunti intrisi di umorismo e di malinconia pian piano hanno cominciato ad avere dei lettori. Molti mi hanno detto che era l’ultima cosa che leggevano prima di andare a letto o la prima al risveglio... Ho cominciato a sentirmi come una specie di romanzo a puntate o di quotidiano».
Un romanzo a puntate intitolato «Panico ma rosa».
« Panico perché questa cosa è stata uno choc epocale, che ci ha spaventati tutti, lasciando ferite profonde che ancora non si è capito fin dove arriveranno. Rosa perché io l’ho vissuta da privilegiato, non dovevo aspettare la mezzanotte per i 600 euro mensili dell’Inps come tanti lavoratori dello spettacolo: non sono ricco, ma posso sopravvivere anche a una situazione drammatica per tanti italiani. Pani
co ma rosa: anche il suono mi piace molto. In fondo, ho passato questo momento tremendo per tutti come un benestante, mi sono goduto la presenza di mia moglie, di mia figlia, progettando qualcosa di nuovo e di imprevisto».
Nel testo, l’io che narra si definisce «un vivo inattivo e inutile che passa attraverso un dramma epocale da piccolo benestante»... Però il contagio Benvenuti se l’è beccato davvero.
«In aprile feci un tampone che era negativo e poi dal test sierologico venni a sapere che avevo sviluppato gli anticorpi, restando asintomatico. Potrei dare il plasma... Nella quarantena noi siamo stati bravissimi, veramente come soldatini, l’abbiamo presa sul serio, abbiamo capito subito che c’era poco da scherzare... Ma tutta Roma, vederla così diligente e rigorosa è stata un’immensa sorpresa, tanto caciarona di solito e tanto perfetta nel
lockdown... ».
E ora che il peggio sembra superato?
«Appartengo a una delle categorie più controllate d’Italia, perché altrimenti non potremmo girare sul set del BarLume a Marciana Marina, obbligati tutti quanti, dal 29 giugno, a prendere la temperatura ogni mattina, a fare un tampone ogni settimana e un test ogni due, perché se qualcuno s’ammala si ferma tutto e sarebbero dolori. Siamo supercontrollati e superprotetti, e io non stringo mani, non ricevo nessuno».
Il sottotitolo è autoironico ma anche drammatico: «Diario di un non intubabile».
«Avendo settant’anni, se in emergenza ci fosse stato un solo ventilatore e mi fossi ritrovato con un ventenne malato, avrebbero intubato lui. Ma l’omaggio doveroso e poetico doveva andare a tutte quelle persone morte sole. Non sono un nonno, però sono stato instradato alla vita dai miei nonni crescendo nel rispetto per i vecchi».
Una delle sue idiosincrasie, oltre che alla Via Francigena e al pesce surgelato, è indirizzata verso «Felicità» di Romina e Al Bano. Va bene cantare dai balconi «Azzurro» e «Volare» ma «Felicità» no!
«È troppo. Tutte le volte che la sento mi piglia male, figurarsi in questa situazione. Non perché io abbia qualcosa contro Al Bano e Romina, ma perché sono personaggi pubblici di cui si sa tutto, vicende anche molto dolorose che ci hanno appassionato. E una canzone come
Felicità per gente che ne ha passate di tutti i colori la trovo buffa... Forse noi comici vediamo il buffo anche laddove non c’è per salvarci la vita, ma mi colpisce sempre questo anelito a essere felici per forza...».
Nella situazione di pandemia e paura, la riscoperta della dimensione onirica è un segnale di fragilità?
«Per me è stato un tempo ritrovato. Come se il concreto della vita mi portasse verso il massimo dell’astratto. Sottotraccia nel diario c’è l’idea che questa cosa abbia fatto riaffiorare i sogni e attraverso i sogni l’immagine di Dio, l’idea della morte, le cose irrisolte. Per esempio, il mio passato di chierichetto e il fatto di essermi sempre ritrovato con un piede nel mistico e uno nel cabaret. Insomma, ha funzionato come un lavoro sulla psiche».
La psiche che batte, come lei sostiene nel diario, dove il dente duole... Ma lei dice anche che scrivere è