Corriere della Sera - La Lettura
Bibliofilo o fan del trash? Compianto dello snob
C’è il difensore della Cultura Alta, il mandarino, il bibliofilo. Poi c’è, solitario e insolente, il fautore del trash. Con questi due ruoli ci tocca fare i conti (come mostra il Tommaso Labranca di Claudio Giunta)
Chissà cosa è scattato nella mente di Claudio Giunta mentre lavorava a Le alternati
ve non esistono, il libro su Tommaso Labranca. Un afflato di tenerezza che da un certo momento in poi ha reso l’oggetto della sua indagine così intimo e palpitante. Solo questo può spiegare come il desiderio di commentare l’opera di un pensatore irregolare — vittima dei pregiudizi dell’establishment e minacciato dall’oblio postumo — si sia tramutata in una specie di biografia (genere nobile, di stirpe antichissima, screditato negli ultimi decenni da caterve di sdolcinate agiografie letterarie).
Ecco, da lettore, posso dire di aver vissuto un twist analogo (meno intenso e proficuo, certo, ma altrettanto frastornante). Pagina dopo pagina, la visione del libro che avevo in mano si è dilatata al punto da emanciparsi dalle curiosità che mi avevano indotto ad aprirlo (galeotto il pezzo di Aldo Grasso uscito settimane fa su queste stesse pagine).
Prima di continuare però, lasciate che metta le mani avanti: conosco a stento sia Tommaso Labranca che la sua opera; per quanto ne so, con un nome del genere (provate a sillabarlo), potrebbe essere un eroe partorito dalla fantasia dantesca di Giunta; il che significa che tutto ciò che mi accingo a scrivere su di lui è di seconda mano, ispirato com’è dal medaglione scolpito dal suo biografo.
Le alternative non esistono, a cominciare dal titolo perentorio e nichilista, mi ha fatto subito pensare a Cro
naca della fine, il libro che anni fa Antonio Franchini dedicò a Dante Virgili. Intendiamoci, l’affinità è del tutto esteriore, di carattere strutturale. Non c’è davvero nulla che unisca Tommaso Labranca a Dante Virgili, se non il modo in cui i loro cantori hanno provato a raccontarli. Grazie al cielo di solito i libri che mettono in scena un duello tra artista e biografo producono qualcosa di buono (il modello inimitabile resta quello offerto da JeanPaul Sartre nel suo Baudelaire).
In merito all’accoppiata Giunta-Labranca, si stenta a immaginare connubio più strampalato. A differenza di Franchini e Virgili, i due non si sono conosciuti. Anagraficamente separati da una manciata di anni, hanno condotto esistenze che più difformi non avrebbero potuto essere. Giunta è uno di quegli enfant prodige accademici che solo la Normale di Pisa è in grado di sfornare (per mia esperienza, non sempre con esiti fausti). Labranca è (o per meglio dire, era) la quintessenza dell’outsider: origine proletaria, studi farraginosi, scriteriata bulimia intellettuale tipica degli autodidatti di genio. Se Giunta, secondo il pregiudizio borghese-evangelico, ha sfruttato al meglio i suoi talenti, Labranca si è distinto nell’antica arte della dissipazione. Ciò che li assimila forse è aver vissuto con imbarazzo l’appartenenza a una specifica e fin troppo angusta categoria professionale. Basta valutare la severa, a tratti deliziosa brillantezza della sua prosa per capire come a Giunta i panni dell’accademico diano noia non meno di quanto quelli dell’intellettuale andassero stretti a Labranca. Del resto, a dispetto di ciò che pensavano i romantici, non c’è alcun merito morale nella misantropia: è un destino, non certo una scelta. «Labranca — scrive Giunta — ha vissuto gran parte della sua vita non confortevolmente contro ma, meno confortevolmente, fuori ». Se non è questo un destino sciagurato... Nella patria dei pasoliniani, degli adorniani, dei passatisti, dei vetero- o neo-avanguardisti, degli aedi dell’impegno civile e dei frivoli stilatori di canoni, in poche parole dei mille giustizialisti culturali, Labranca ha surfato sull’onda della frivolezza contemporanea con entusiasmo e ironia encomiabili, ove possibile, sospendendo il giudizio. In tal modo, stando a Giunta, ha attirato su di sé l’insofferenza dei mediocri e il disprezzo dei superciliosi.
A proposito di ingiustizie, Giunta è onesto nel denunciare il privilegio che lo separa da Labranca. Parla con imbarazzo (potrei fare altrettanto) del suo «stipendio di professore (e uno studio, un ruolo, una biblioteca, fondi di ricerca, contatti con i colleghi…); per quelli che possono contare soltanto sulla loro intelligenza e la loro scrittura in un mondo che negli ultimi decenni sembra aver dimezzato lo spazio concesso tanto alla prima quanto alla seconda, cioè le opportunità di lavoro, ossia di vita, per i liberi intellettuali, per quelli che non hanno pensione, assicurazione, cassa malattia, ferie pagate, e che ogni giorno devono sperare che squilli il telefono o arrivi l’email che, in cambio di qualche decina o centinaio di euro lordi, commissiona un articolo, un’intervista, la biografia di una star appena defunta». Facendogli i conti in tasca, Giunta conclude che tutte le cose belle e intelligenti pensate e scritte da Labranca gli hanno fruttato pochi spiccioli. È vissuto d’altro. Giunta sembra attribuire tale ingiustizia finanziaria ai nostri tempi ingenerosi con i poeti. Sartre dissentirebbe (ed io con lui). Da che gli artisti hanno dovuto rinunciare alle prebende del mecenatismo, rivendicando la propria emancipazione dal ruolo di parassiti-cortigiani, hanno dovuto fare i conti con il mercato. Labranca è solo uno delle ultime vittime di un meccanismo tutto sommato virtuoso. Riuscire a smerciare i propri libri è un talento e un merito, non una colpa. Il resto è il tipo di piagnisteo vittimista che forse non sarebbe piaciuto a Labranca, perlomeno non al Labranca di Giunta.
Ciò detto, Giunta è implacabile nell’affondare il dito nella piaga che affligge chiunque faccia un lavoro intellettuale. Il convitato di pietra è sempre lui: lo snobismo, e la difficoltà di delinearne i confini una volta per tutte.
Da una parte c’è il difensore della Cultura Alta, il mandarino, il maître à penser: eccolo là, il melomane, il bibliofilo, l’accademico dei Lincei, il severo poeta laureato; dall’altra, solitario e insolente, c’è lui: il fautore del trash. Chi è il più snob? Gran bella domanda. Per essere ancora più chiari: chi è più snob tra Gianni Agnelli, Gustavo Zagrebelsky, Tommaso Labranca e Claudio Giunta? È dai tempi del salotto di Madame de Rambouillet, passando per casa Verdurin, fino all’attico newyorchese dei Bernstein che interrogativi del genere suscitano la nostra curiosità. Giunta ha pochi dubbi in proposito (e stavolta mi unisco volentieri a lui): lo snobismo del culturame mandarinesco è decisamente più asfittico, settario e astioso di quello dei pochi autentici liberi pensatori. D’altronde, non tutti gli snobismi si somigliano. Ce ne sono di virtuosi e di esecrabili. Labranca ha vissuto questa contraddizione con euforia, l’ha portata a galla, smascherata, se n’è lasciato prima sedurre poi distruggere. Purtroppo il situazionismo va maneggiato con cura: a giudicare dai cialtroneschi titoli dei suoi libri più noti, Labranca la pensava altrimenti. Posso solo immaginare con quale sorriso sardonico liquiderebbe le ciarle sui massimi sistemi scolastici e universitari che hanno inondato il dibattito pubblico nelle ultime settimane. Per chi come me ha tratto dalla videodipendenza adolescenziale (un vizio, scopro, condiviso con Giunta) maggior profitto umanistico di qualsiasi lezione ricevuta sui banchi di scuola, le chiose di Giunta all’opera di Labranca rappresentano un riscatto tardivo.
Ora so che fino a qualche giorno fa la mia idea di trash era allo stesso tempo corriva e imprecisa. Non mi vergogno ad ammettere che i passi di Andy Warhol era
un coatto citati da Giunta hanno allargato di qualche spanna i miei orizzonti. Come non apprezzare il gusto di Giunta per le comparazioni felici? Paragonare l’«emulazione fallita» postulata trent’anni fa da Labranca al «desiderio mimetico» di Girard mi pare un’idea formidabile. A pensarci bene, infatti, sono impulsi che scaturiscono dallo stesso disagio morale: la smania bovarista di essere ciò che non si è e che non si sarà mai. La differenza forse è ancora una volta nel tono. Nelle pagine dell’antropologo cattolico René Girard si respira aria tossica. Lui usa i grandi eroi della narrativa per denunciare le fragilità umane. Il nostro desiderio, ci ammonisce Girard, non è mai puro, è sempre il frutto di un’imitazione. Noi amiamo la bella della classe perché è amata dal bello della classe: quindi amiamo anche un po’ lui. È così che siamo fatti. Chi sostiene il contrario (e per Girard lo facevano i romantici) è un ipocrita e un impostore.
Da come la mette Giunta, il moralismo di Labranca (e vorrei restituire al termine «moralismo» la sua funzione più nobile), al contrario di quello esibito da Girard, non persegue alcun intento censorio. Con quale sincero affetto Labranca affronta gli emulatori falliti, i suoi mostri; lo fa senza giudicarli, non compatendoli, lasciandosene sedurre e intenerire. Del resto, non deve fare molta strada per incontrarli: sono ovunque.
Giunta sostiene che l’origine proletaria, dalla quale Labranca non ha potuto né voluto emanciparsi, ha contribuito a immunizzarlo dai germi del paternalismo messianico di Pasolini e dallo snobismo elitista di Eco. E anche quest’idea mi piace parecchio.
Ricordo ancora quando una decina di anni fa, durante una kermesse anti-berlusconiana che seguivo distrattamente in tv, sentii Umberto Eco pronunciare questa frase indegna della sua straordinaria intelligenza: «Io vado a letto tardi perché leggo Kant». È il genere di rivendicazione che il Labranca di Giunta non potrebbe mai fare, e mica perché non coltivi interessi filosofici, ma perché il suo relativismo culturale (chiamiamolo pure così) gli impedisce di giudicare chi non ne ha e non ne vuole avere.
Il che forse spiega perché soffro ogni volta che Giunta (avvalendosi di testimonianze circostanziate) dà conto delle mille grettezze di Labranca: ingratitudini, maldicenze, invidie omeriche. Soffro, sì, ma mica perché non comprenda gli impulsi meschini che ci guidano (figuriamoci); e neppure perché li trovi disonesti e illegittimi. Tutt’altro, conosco il mio mestiere e la natura umana abbastanza da sapere che certa immondizia emotiva è ineludibile. Niente ferisce più lo spirito della combinazione letale tra insuccesso e indigenza. D’altro canto, è evidente che sono proprio queste tare caratteriali a conferire al personaggio-Labranca una conturbante profondità romanzesca. La mia sofferenza deriva da un radicato pregiudizio nei confronti del rancore. Spesso si pensa al risentimento come a una specie di malattia morale. Da livoroso redento (e quindi, come gli ex alcolisti, sempre sull’orlo del baratro) posso dire che il risentimento è anzitutto un veleno intellettuale, una bigia cataratta che impedisce allo spirito di librarsi e allo sguardo di aprirsi a una visione panoramica. Mi viene in mente ciò che scrive George Steiner su Thomas Bernhard (uno scrittore che leggevo molto più volentieri da ragazzo di quanto non faccia oggi): «Il guaio dell’odio è che ha il fiato corto. Là dove l’odio produce un’ispirazione autenticamente classica — in Dante, in Swift, in Rimbaud — lo fa con delle folate su brevi distanze. Quando si protrae, diventa una sega monotona e mal affilata che ronza e stride senza fine». Per questo soffro quando Giunta parla delle «scorte di astio» accumulate da Labranca negli ultimi disgraziati anni della sua vita. Vorrei che gli fossero state risparmiate: se non a lui, almeno alla sua intelligenza.