Corriere della Sera - La Lettura
Se lo conosci non ti lascia più Lo senti anche quando non c’è
Il senso di un idioma. E il caso Ferrante
Ieri mattina mentre camminavo e ascoltavo musica con il comando «casuale» è comparsa una canzone napoletana che amo molto perché è divertente e liberatoria: parla di uno che si deve sposare, ma la voce della coscienza lo avverte che moglie, figli, casa e il resto gli costeranno tantissimo, e gli dice: stattene da solo, sei giovane, tieni i soldi, a Napoli c’è il mare, lascia stare.
La canzone si chiama ’O scuitato. Il suono di questa parola, scuitato, mi seduce da sempre: mi sembra significhi fino in fondo quello che vuole significare, per questo è nella sostanza intraducibile. Potrebbe derivare dal latino exquietatus oppure, più probabilmente, da una parola spagnola che non si sa se sia desquidado (separato) o descuitado (che sarebbe uno senza preoccupazioni).
Io mi sono fatto questa idea, del tutto arbitraria, ma che mi convince: unisce le due parole spagnole e da questa unione nasce una parola unica che vuol dire sia quello che oggi chiamiamo single, libero da legami; sia libero da preoccupazioni. E il fatto che non avere legami significhi non avere preoccupazione è esattamente quello che la canzone vuole dire. E la parola è intraducibile se non dandole più significati in accumulo. Ma una parola in napoletano (e lo dico solo perché è il mio dialetto, ma varrà anche per gli altri dialetti) può essere spiegata spesso soltanto con giri di frasi, combinazioni ed esempi complicati. Perché scuitato è più preciso, profondo, malinconico, rabbioso, trionfante, di quanto possa essere qualsiasi sinonimo faticoso.
Non c’è nulla di tutta la narrativa di area napoletana che ho amato, che abbia minimamente a che fare con il dialetto — se non Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, ma andando molto indietro nei secoli (1634). La sintassi, la cadenza, il tono, quello sì: ci sono pagine di Ferito a morte che si possono leggere ad alta voce solo con una cadenza napoletana, altrimenti non ne cogli la forza così come non puoi cogliere il suono dell’Eneide se gli accenti non cadono nei punti esatti; eppure non c’è libro che si discosti dal dialetto più del romanzo di Raffaele La Capria.
Ma se un dialetto lo conosci, lo parli o lo hai parlato, opera un attaccamento agli organi interni che poi non sparisce più. Cioè, esiste anche quando non lo adoperi, si confonde con la lingua che parli e che scrivi, forse cerca di guidarti o addirittura di manipolarti.
Nel lavorare alla serie tv tratta dai libri di Elena Ferrante, L’amica geniale, ci siamo trovati di fronte a una questione fondamentale nella differenza tra letteratura e cinema (o fiction che sia): Elena Ferrante ha affermato per quattro interi volumi che in gran parte di essi i personaggi si esprimevano in dialetto, ma non lo ha adoperato praticamente mai. Riportava i dialoghi tradotti con una sintassi che ricordava che avevano a che fare con il dialetto, ma non il dialetto.
Ferrante ha scritto i suoi libri in italiano sottolineando ogni volta che però i personaggi stavano parlando in dialetto. È una scelta che la letteratura (in prosa) fa spessissimo: il narratore (come fa Elena nell’Amica geniale) riporta tutto quello che è accaduto usando una lingua che compatta, che sintetizza, che traduce dal dialetto per i lettori. I quali, spesso, ipnotizzati dal vortice del racconto, se possono, se sono competenti (conterranei), ritraducono da sé in dialetto. Ed è per questo che un’operazione piuttosto ardua — quella di scrivere la serie tv da L’amica geniale usando il napoletano lì dove in origine non c’è, cioè usando la lingua che Ferrante non ha voluto usare (si è rifiutata di usare, si potrebbe azzardare) — appare invece quasi naturale, perché è come se quel dialetto fosse dentro il libro. Ma nel libro non c’è.
E infatti è come se molti lettori e poi spettatori, ascoltando il dialetto della serie tv, lo ricordassero anche nel libro. Perché il dialetto, il proprio dialetto, esiste anche quando non lo si parla o non lo si scrive o
non lo si legge: è la lingua del pensiero, e quindi è sempre presente. Per fare un esempio: quando Milan Kundera ha cominciato, in esilio, a scrivere in francese e non più in ceco, adoperando una lingua propria e per niente tradotta mentalmente, ha proibito la traduzione dei suoi libri nella sua lingua d’origine. Ma i cechi che sono stati costretti a leggerlo in francese, forse erano convinti di leggere ancora il ceco.
Molta della differenza tra cinema e letteratura sta qui: i personaggi possono essere rimodellati anche nella lingua, se stanno sulla pagina; ma se poi stanno davanti a te, sullo schermo, in un presente reale da cui non si sfugge, e allora devono parlare come davvero parlano (o come si è deciso per convenzione che davvero parlino). È per questo che la narrativa e il cinema, per quanto riguarda il dialetto, hanno preso strade opposte. Nella letteratura italiana in prosa ci sono poche eccezioni alla lingua italiana; nel cinema italiano la caratteristica più evidente è l’uso dei dialetti, la caratterizzazione dei personaggi attraverso il siciliano, il veneto, il napoletano, il milanese, il toscano. Se un romanzo è ambientato a Genova o a Livorno, non è affatto detto che si parli quel dialetto; nel cinema parrebbe straniante se non lo si parlasse.
In più, il cinema (e anche la televisione) invece di combattere, o di avere a che fare, soltanto con la lingua italiana, in realtà si è dovuto misurare e continua a misurarsi con un dialetto principe: il romanesco. Grandi attori, grandi film, grandi personaggi televisivi, tantis