Corriere della Sera - La Lettura

Oscurità o espressivi­tà (ma senza sovranismi)

L’esempio di Eduardo e i rischi di oggi

- Di FRANCO CORDELLI

Nel 2017, quando fu annunciata un’edizione del Macbeth tradotto in sardo, scrissi che non lo avrei visto. Il Teatro di Sardegna, che ne era produttore, rispose in modo scherzoso-beffardo. Ai pregiudizi, per quanto mi riguarda, ero abituato. Anni prima, l’illuminato direttore dell’«Europeo», Lanfranco Vaccari, mi offrì lo spazio per una rubrica di «giudizi presupposi­tivi»: una pacchia (una festa di indovinell­i di cui si sa sempre la risposta).

A parte che poi Macbettu lo vidi — ciò accadde perché ne era regista Alessandro Serra di cui avevo apprezzato Frame, spettacolo senza parole dedicato a Edward Hopper — quale era la ragione del rifiuto preliminar­e? Lo dirò in modo molto semplice: perché sono italiano, amo la mia lingua e, come i sardi vogliono difendere la loro, penso di avere il diritto se non la pretesa di difendere la mia. Fino a prova contraria, anche i sardi sono italiani e, anche se capisco la ricchezza dei patrimoni locali, e capisco che ogni convivenza è una ricchezza, di più mi accorgo che la lingua italiana tende a impoverirs­i: una ragione sufficient­e per difenderla. Perché perdere tempo con qualsiasi dialetto?

Ma voglio procedere per esempi, esempi recenti. Macbettu di Serra lo si vide con tanto di didascalie, ossia all’estremo di uno spettacolo in cui la lingua (la voce, i toni di voce, ogni cadenza, ogni sillaba) è cruciale. La grande magia di Eduardo De Filippo, come qualsiasi testo di De Filippo (di un classico), sarebbe un caso a sé. Lo era ancor più l’edizione di Lluis Pasqual del 2018. Non solo il regista non era italiano e aveva un controllo minore sulla lingua, e minore ancora sul dialetto, ma i due straordina­ri protagonis­ti di quello spettacolo, Nando Paone e Claudio Di Palma, per il tempo trascorso dalla nascita di quel testo del 1948, per la direzione di un regista catalano, fatalmente il dialetto lo ammorbidiv­ano, lo rendevano simile alla lingua parlata dalla maggior parte dei loro spettatori.

Lo stesso fenomeno lo abbiamo riscontrat­o il mese scorso, al Festival di Napoli. Perché Andrej Longo aveva adattato The Red Lion di Patrick Marber in napoletano? Diciamo per eleganza o per vizio, come volete. Ma il risultato, anche in questo caso si rivelò analogo a quello de La grande magia. Due nobili attori, Nello Mascia e Andrea Renzi, e il più era fatto: la differenza tra lingua e dialetto (dialetto che a tanti potrebbe risultare inaccessib­ile) era annullata. I corpi, la gestualità, e alla fine le stesse cadenze di voce diminuivan­o le distanze.

All’opposto, altri due testi e spettacoli, di ieri e dell’altro ieri, che si avviano a diventare dei classici. Parlo di ’Nzularchia e de La Cupa di Mimmo Borrelli. La lingua di Borrelli non è neppure più un dialetto. Nasce nei Campi Flegrei e diventa un fenomeno a sé. Va oltre ogni lingua e ogni dialetto, è pura espressivi­tà, annienta ogni problema di possibile rivendicaz­ione sovranista. La sovranità è sua ed è effettivam­ente indiscutib­ile.

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