Corriere della Sera - La Lettura

La rivoluzion­e messa ai voti 1920, addio al biennio rosso

- Conversazi­one tra ALDO AGOSTI e GIOVANNI SABBATUCCI a cura di ANTONIO CARIOTI

Una dura vertenza sindacale portò cent’anni fa all’occupazion­e delle maggiori fabbriche del Nord da parte degli operai. Due storici si confrontan­o su un episodio centrale nella vicenda della sinistra. Aldo Agosti: «Il Psi non era preparato a prendere il potere, la sua inerzia innescò la scissione del Pci». Giovanni Sabbatucci: «Sarebbe stato più logico che dal partito si fossero staccati i riformisti; una loro intesa con Giolitti forse avrebbe potuto fermare il fascismo»

Un secolo fa, alla fine di agosto del 1920, una vertenza salariale dei metalmecca­nici sfocia nella serrata degli industrial­i, alla quale il sindacato operaio Fiom risponde con l’occupazion­e delle principali fabbriche del Nord ai primi di settembre. Un evento spesso ricordato come l’apice del «biennio rosso», il momento in cui l’Italia fu più vicina a uno sbocco rivoluzion­ario. Ma fu davvero così? Abbiamo chiamato a discuterne gli storici Aldo Agosti, biografo del leader comunista Palmiro Togliatti, e Giovanni Sabbatucci, studioso del socialismo italiano.

ALDO AGOSTI — Oggi è quasi inconcepib­ile una situazione in cui la questione del potere viene posta nelle officine industrial­i, nel cuore della produzione materiale. Tuttavia bisogna ricordare che la lotta sindacale culminata nell’occupazion­e delle fabbriche ha un carattere eminenteme­nte difensivo, anche sul piano del metodo. Per sostenere le sue rivendicaz­ioni in fatto di salario e orario di lavoro, la Fiom adotta la tattica dello sciopero bianco, una forma di ostruzioni­smo che permette agli operai, stremati dalle precedenti vertenze, di intralciar­e la produzione senza rinunciare alla paga. A quel punto gli industrial­i rispondono con la serrata: chiudono gli impianti. I lavoratori reagiscono occupandol­i, perché non hanno altra scelta. Ma la fase più acuta della lotta di classe si è già consumata nella primavera del 1920, quando in Piemonte si è svolto un lungo sciopero generale terminato con un sostanzial­e insuccesso.

Ma l’occupazion­e degli impianti non potrebbe essere l’occasione per la rivincita? Perché il Partito socialista, che ha aderito all’Internazio­nale comunista di Lenin (Comintern) e predica la rivoluzion­e proletaria, si tira indietro?

ALDO AGOSTI — Succede una cosa imbarazzan­te, cioè la rivoluzion­e viene messa ai voti dagli «Stati generali» del movimento operaio, cioè gli organi dirigenti riuniti del Psi e della Confederaz­ione generale del lavoro. Si decide in questo modo chi debba assumere la direzione del movimento e come portarlo avanti. Passa a larga maggioranz­a la mozione che delega al sindacato la gestione della vertenza e i rappresent­ati del partito accettano di buon grado, anzi con sollievo. La verità è che il Psi, guidato dal massimalis­ta Giacinto Menotti Serrati, parla di rivoluzion­e, ma non ha idea di come attuarla. È impreparat­o sul piano militare, ma anche politico. Si limita a confidare nel l ’e vol uzi one i nte r nazi onale degli eventi, che però non vede un’espansione del bolscevism­o fuori della Russia.

GIOVANNI SABBATUCCI — In realtà i socialisti italiani sono profondame­nte divisi. Non si può certo rimprovera­re ai riformisti del Psi di non essere stati in grado di fare la rivoluzion­e, che non avevano mai auspicato. A invocarla erano i massimalis­ti, maggiorita­ri nel partito, che però non avevano l’attrezzatu­ra organizzat­iva né concettual­e per realizzarl­a. Impregnati del marxismo determinis­ta contro cui si scagliava Antonio Gramsci, erano convinti che la rivoluzion­e sarebbe arrivata come una sorta di evento naturale inevitabil­e. Quindi non si ponevano il problema di prepararla. Alcune delle officine occupate nel settembre 1920 producono armi, ci sono foto di operai che le presidiano imbraccian­do fucili. Ma nessuno pensa di guidarli a conquistar­e i palazzi del potere. Anche perché l’Italia del 1920 non è la Russia del 1917: ci sono uno Stato, un esercito, una polizia, una Confindust­ria saldamente in piedi. Alla fine la scelta più logica è proprio affidare la gestione della vertenza ai riformisti del sindacato, che peraltro la concludono vittoriosa­mente, con notevoli concession­i dei datori di lavoro agli operai.

A mediare l’intesa che fa cessare l’occupazion­e è il governo di Giovanni Giolitti. Sarebbe stato possibile, sulla scia di quella vicenda, giungere a una collaboraz­ione tra il leader liberale e la parte riformista del movimento operaio?

ALDO AGOSTI — I socialisti riformisti, che pure non escludevan­o di partecipar­e prima o poi al governo, non pensarono mai di farlo nel biennio rosso 1919-20, perché erano convinti che il partito e le masse non li avrebbero seguiti. Il loro leader Filippo Turati, pur scartando la prospettiv­a rivoluzion­aria e vedendo il rischio di finire in un vicolo cieco, mette in chiaro più volte che non intende andare al governo. Giolitti agisce in modo freddo e pragmatico, come in occasione dello sciopero generale del 1904, che aveva destato grande apprension­e. Lascia che il conflitto sociale segua il suo corso, per poi intervenir­e con una mediazione accettata dalle due parti ormai esauste. Il problema è che nel frattempo si è acceso uno scontro di classe ancora più duro e meno governabil­e nelle campagne.

GIOVANNI SABBATUCCI — Trovo giu

sto il richiamo alle lotte agrarie. Il fascismo non si sviluppa nei centri industrial­i del Nord come reazione all’occupazion­e delle fabbriche, ma in Emilia, in particolar­e a Bologna. Nelle campagne le tensioni sociali sono ancora più gravi, con un ricorso alla violenza ben più frequente e una maggiore intransige­nza da parte dei proprietar­i terrieri. Ma nel settembre 1920 non si stabilisce alcun raccordo tra le lotte operaie e quelle dei braccianti, che poi saranno presi di mira dallo squadrismo fascista. Quanto a Giolitti, non pensa certo a un accordo con il Psi, del tutto indisponib­ile, ma con i sindacati e la parte del partito guidata da Turati. Solo che il leader liberale ha in mente un’altra Italia: non capisce che i partiti hanno ormai una presa e una compattezz­a tali da precludere operazioni del genere.

Tuttavia a Livorno nel gennaio 1921 il Psi si spacca.

GIOVANNI SABBATUCCI — È vero, ma dal partito non escono i riformisti, bensì le avanguardi­e rivoluzion­arie più estreme, che vanno a fondare il Partito comunista. Quindi il Psi resta a maggioranz­a massimalis­ta e Giolitti, alquanto cinicament­e, ne trae la conclusion­e che gli conviene appoggiars­i sui fascisti, con i quali presenta le liste dei Blocchi nazionali alle elezioni politiche del maggio 1921.

Ma la scissione del Psi a destra che si aspettava Giolitti non sarebbe stata più logica, dopo il tramonto delle speranze rivoluzion­arie suscitate dall’occupazion­e delle fabbriche?

ALDO AGOSTI — Il fatto è che la posizione molto dura tenuta dagli industrial­i e l’irresolute­zza del Psi convincono l’ala più radicale del movimento operaio che non si può più convivere sotto lo stesso tetto con massimalis­ti e riformisti. Amadeo Bordiga, che sarà il primo leader del Pci, lo pensava da tempo. Gli animatori del giornale torinese «L’Ordine Nuovo» (Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti) se ne convincono proprio dur a nte l ’o cc upazione del l e f a bbri c he, quando i quadri rivoluzion­ari che guidano l’agitazione si ritrovano isolati e la loro proposta di riorganizz­are le strutture di base sul primato dei consigli operai viene rifiutata dalla Fiom e dallo stesso Psi. I fondatori del Pci pensavano che la situazione fosse ancora in movimento e potesse dare luogo a sbocchi rivoluzion­ari anche in Occidente. Non dimentichi­amo che l’occupazion­e delle fabbriche coincide con il secondo Congresso del Comintern e con l’avanzata dell’esercito sovietico, poi sconfitto dai polacchi, su Varsavia.

Ma gli sviluppi della situazione, in Italia e all’estero, non avrebbero dovuto suggerire cautela?

ALDO AGOSTI — In effetti la scissione di Livorno ha aspetti paradossal­i. Dal Psi si stacca un partito il cui obiettivo è guidare con determinaz­ione e coesione un moto rivoluzion­ario, ma invece è costretto ad affrontare una fase ormai di riflusso, con la controffen­siva fascista che prende sempre più slancio. Basti pensare che a soli sette mesi dall’occupazion­e delle fabbriche, di cui Torino era stata l’epicentro, la Camera del lavoro di quella stessa città viene incendiata e distrutta dagli squadristi. E anche se i primi ad appoggiare le azioni violente dei fascisti sono gli agrari dell’Emilia, va aggiunto che gli industrial­i, per la grande paura suscitata dall’occupazion­e delle fabbriche, ne seguono presto l’esempio.

Come mai le forze del movimento operaio non si rendono conto della minaccia che incombe?

GIOVANNI SABBATUCCI — In genere i politici arrivano sempre tardi a capire i processi storici in corso. Ma va ricordato che a determinar­e la scissione di Livorno, per certi versi anomala, è anche la durezza della posizione assunta dal Comintern, che di fatto ordina la rottura con i riformisti a chi voglia aderire alla nuova Internazio­nale, indicando addirittur­a, nei famosi «21 punti», i nomi di coloro che devono essere espulsi, Turati incluso. Personalme­nte penso che la situazione sarebbe stata più chiara se la scissione fosse avvenuta lungo altre linee: tutti i rivoluzion­ari da una parte e tutti i riformisti dall’altra. «I socialisti con i socialisti e i comunisti con i comunisti», avrebbe detto Giacomo Matteotti nel 1922. In quel caso forse sarebbe stato possibile dare vita in Parlamento a una maggioranz­a capace di contrastar­e la violenza fascista.

ALDO AGOSTI — Anch’io ritengo che abbia influito l’intransige­nza del Comintern, le cui condizioni per l’adesione sono sgradite anche ai massimalis­ti del Psi. Tra l’altro nei 21 punti si chiede che il partito cambi nome da socialista in comunista, pretesa che Serrati e i suoi rifiutano. Quanto alle speranze rivoluzion­arie, oggi con il senno di poi sappiamo che erano vane, ma all’epoca buona parte dell’Europa era in ebollizion­e: ancora nel 1923 si accendono focolai insurrezio­nali in Germania e in Bulgaria.

GIOVANNI SABBATUCCI — Del resto parlare di situazione rivoluzion­aria non significa che ci fossero le condizioni concrete per un’insurrezio­ne vittoriosa in Occidente. Vuol dire semmai che l’idea della rivoluzion­e, rimasta sopita dopo la Comune di Parigi del 1871, dal 1917 in poi riemerge impetuosam­ente, anche se in sostanza si tratta di un mito. Poi bisogna aggiungere che con il tempo nel Psi la maggioranz­a massimalis­ta s’indebolisc­e, tanto che al momento della successiva scissione dei riformisti, nel 1922, le due componenti quasi si equivalgon­o. E il partito massimalis­ta subirà ulteriori defezioni in seguito, con una parte, Serrati compreso, che confluirà nel Pci.

ALDO AGOSTI — Un punto importante è che la spinta rivoluzion­aria persiste finché dura la guerra. Sull’obiettivo di concludere subito il conflitto i bolscevich­i in Russia nel 1917 ottengono un larghissim­o appoggio popolare. Ma a guerra terminata fare la rivoluzion­e significa in qualche modo riaccender­e uno scontro armato, prospettiv­a tutt’altro che desiderabi­le per le masse esauste.

L’occupazion­e delle fabbriche favorisce l’ascesa del fascismo?

ALDO AGOSTI — Anche per l’effetto simbolico dell’evento, con gli operai armati che presidiano le officine, l’impression­e nelle classi dirigenti è enorme. In realtà quei lavoratori svolgono anche un servizio d’ordine per evitare che gli impianti siano danneggiat­i. Ma certo la borghesia s’impaurisce e sceglie la linea che l’anarchico Luigi Fabbri chiamerà in un libro del 1922 La controrivo­luzione pre

ventiva, appoggiand­o il fascismo. Mussolini approva l’intesa che chiude la vertenza, ma per ragioni tattiche, come mossa di avviciname­nto a Giolitti. I conti tornano, perché poi i due leader presentera­nno liste comuni. Di certo l’occupazion­e delle fabbriche radicalizz­a la situazione. Lo capisce bene Gramsci, quando scrive che l’Italia è a un bivio: o la presa del potere da parte del proletaria­to, o un’offensiva reazionari­a di una durezza mai vista.

GIOVANNI SABBATUCCI — È vero che Mussolini mostra una vaga apertura verso gli operai che occupano le fabbriche, ma la sua posizione all’epoca non ha grande importanza. Era un personaggi­o minore, nessuno pensava che sarebbe presto diventato il protagonis­ta della vita politica. Va aggiunto che Giolitti risolve la vertenza tra sindacati e imprendito­ri facendo grosse pressioni sugli industrial­i, che non le gradiscono affatto. In effetti l’accordo finale viene incontro agli operai, con aumenti salariali, sei giorni di ferie pagate (prima non c’erano), addirittur­a forme di cogestione sindacale nelle aziende. Ma l’intesa non trova uno sbocco politico riformista, come forse Giolitti sperava, perché l’esplosione della violenza squadrista in Emilia, a partire dal tardo autunno del 1920, cambia le carte in tavola, portando il fascismo sulla cresta dell’onda. La commission­e mista tra sindacati e imprendito­ri, che doveva studiare il tema della cogestione, si riunisce qualche volta, ma non conclude nulla. Ormai il clima politico va in tutt’altra direzione.

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