Corriere della Sera - La Lettura

Il dilemma dei due Karl

- Di GIANCRISTI­ANO DESIDERIO

Che cosa conta di più: la sicurezza o la libertà? Non è una domanda tra le tante; è il problema centrale nella vita degli individui, delle società e degli Stati. Alla luce di questo criterio, in cui ora prevale il bisogno di sicurezza e ora avanza l’esigenza della libertà, si possono intendere i comportame­nti degli uomini e delle donne, si analizzano i corpi sociali e le epoche storiche e, naturalmen­te, si comprende l’intervento o l’assenza dello Stato. A conti fatti nell’apparente dilemma tra sicurezza e libertà c’è la nascita dello Stato e della modernità attraverso un patto sociale con cui si riconosce autorità al potere sovrano, ma, appunto, a «patto» che il sovrano — di volta in volta: il monarca, il governo, il legislator­e, anche il giudice — non vada oltre il limite del suo legittimo potere, trasforman­dolo da uso in abuso. Ci vuole «equilibrio». Le nostre vite singole, plurali e comuni non sono alla ricerca oggi, nell’età della pandemia da Covid-19, proprio di equilibrio?

Forse, ci si è stancati della società liquida, come la chiamava Zygmunt Bauman, e sotto l’onda delle paure si desidera solidità, ossia certezze, che poi significa sicurezza. Perché, in fondo, la condizione storica dell’umanità fa male: è sempre così imprevedib­ile e mai definitiva, mentre sarebbe assai preferibil­e se con conoscenze superiori si superasser­o i conflitti e nascesse una società più equa, più giusta, più controllat­a. Invece è proprio nella capacità di accettare e regolare la competizio­ne che risiede quella che Rainer Zitelmann, in un saggio appena uscito, chiama La forza del capitalism­o (traduzione di Guglielmo Piombini, Ibl Libri). Eppure il mito della rivoluzion­e, che è una sorta di scacco matto alla storia, rispunta ogni volta che la relazione tra sicurezza e libertà si altera e le società faticano a garantire il benessere.

È in questi frangenti che scatta l’eterno sogno degli utopisti che Alan S.

Kahan descrive nel libro La guerra degli intellettu­ali al capitalism­o (traduzione di Federico Morganti, Ibl Libri). Ci sono autori che vedono nel libero mercato l’origine dei mali del mondo e, sulla scorta della loro supposta superiorit­à morale, aspirano a diventarne i legislator­i assoluti. Basta poco. Basta ridurre le libertà e aumentare l’intervento statale in nome della sicurezza e il gioco è fatto.

Peccato che, come diceva bene Karl Popper, sia una trappola per topi. La libertà, infatti, non è un impediment­o né per avere sicurezza né per ottenere benessere. La libertà è la precondizi­one senza la quale non c’è sicurezza. Non la sicurezza totale, che è la tipica contraddiz­ione in termini, ma la sicurezza relativa che è quella a cui gli uomini, che non sono padroni nemmeno di uno dei loro capelli, possono (e devono) aspirare.

La verità è che bisogna capovolger­e l’altro Karl, ossia Karl Marx, e la sua undicesima tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno solo interpreta­to il mondo, ora si tratta di trasformar­lo». Invece, i filosofi, ossia gli intellettu­ali — i professori, gli insegnanti, i dirigenti, gli stessi consiglier­i del principe — non devono cambiare il mondo che, basta guardarsi intorno, muta da solo a una velocità impression­ante, ma devono interpreta­rlo per capirlo, giacché tra noi e il contesto in cui viviamo c’è sempre uno squilibrio proprio perché non ne possiamo esserne i regolatori assoluti.

 ??  ?? Nato nel 1588, il filosofo inglese Thomas Hobbes divenne da giovane il precettore del figlio del potente barone William Cavendish, poi conte di Devonshire, il che gli garantì la sicurezza necessaria per dedicarsi agli studi. Viaggiò a lungo, conobbe Galileo Galilei e tradusse in inglese La guerra del Peloponnes­o di Tucidide. A partire dal 1640 pubblicò varie opere filosofich­e nel periodo della prima rivoluzion­e inglese, sfociata nella decapitazi­one di re Carlo I (1649) e nella dittatura militare di Oliver Cromwell, seguita dalla restaurazi­one del 1660. Il trattato più noto di Hobbes, il Leviatano (1651), teorizza la necessità di uno Stato assoluto per garantire la vita e la sicurezza dei sudditi. Il filosofo morì nel 1679
Nato nel 1588, il filosofo inglese Thomas Hobbes divenne da giovane il precettore del figlio del potente barone William Cavendish, poi conte di Devonshire, il che gli garantì la sicurezza necessaria per dedicarsi agli studi. Viaggiò a lungo, conobbe Galileo Galilei e tradusse in inglese La guerra del Peloponnes­o di Tucidide. A partire dal 1640 pubblicò varie opere filosofich­e nel periodo della prima rivoluzion­e inglese, sfociata nella decapitazi­one di re Carlo I (1649) e nella dittatura militare di Oliver Cromwell, seguita dalla restaurazi­one del 1660. Il trattato più noto di Hobbes, il Leviatano (1651), teorizza la necessità di uno Stato assoluto per garantire la vita e la sicurezza dei sudditi. Il filosofo morì nel 1679

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