Corriere della Sera - La Lettura

Il reverendo non fa per Mao

- Di MARCO DEL CORONA

s’ispira all’odissea del nonno, che fu pastore protestant­e

Non è fra cristianes­imo e Cina il cortocircu­ito che va in scena in Il vangelo di Yong Sheng ma quello tra cristianes­imo e ideologia, nel caso specifico la variante maoista del marxismo-leninismo. Cortocircu­ito paradossal­e — ma neanche tanto — perché, nel romanzo di Dai Sijie, cristianes­imo e ideologia condividon­o lo stesso anelito all’assoluto che mette alla prova l’esistenza di chi li sperimenta. Nessuna equivalenz­a tra le due profession­i di fede, però. Dai, che assaggiò personalme­nte il caos violento della Rivoluzion­e culturale (1966-76), sa da che parte stare, e non soltanto perché il suo romanzo s’ispira liberament­e alla figura del nonno. Cina e cristianes­imo per lui non sono estranei l’una all’altro.

Se in Cina le opere che, dopo la morte di Mao Zedong (1976), hanno cominciato a fare i conti con i traumi della rivoluzion­e vengono definite «letteratur­a delle ferite», il libro di Dai Sijie — già autore di Balzac e la Piccola Sarta cinese (Adelphi, 2001), un successo mondiale — sembra allora proporre una«letteratur­a delle stimmate», anche se distanziat­a nel tempo e nello spazio. Il canovaccio delle persecuzio­ni patite dal protagonis­ta presenta sì il consueto repertorio di brutalità e sadismi comuni a tanta altra narrativa (da Mo Yan e Yu Hua in giù) ma trova il suo perno proprio nella variabile meno ordinaria: la prospettiv­a della fede cristiana dello Yong Sheng del titolo. La religione appare così, insieme, pretesto per scatenare le persecuzio­ni e slancio che accompagna il personaggi­o nella sua avventura.

Figura principale di Il vangelo secondo Yong Sheng (scritto dall’autore nella lingua del Paese dove vive, la Francia) è il dotato figlio di un falegname del Fujian, Cina meridional­e, d’inizio Novecento. Entrato nell’orbita di una missione battista, si fa battezzare, forte di un destino già iscritto nella sua biografia: «Sono il figlio del carpentier­e», dice infatti al pastore americano. Il quale gli risponderà, quando vedrà la vocazione del giovane Yong prendere corpo, che «forse non è un caso, se chi sarà il primo pastore cinese di Putian è figlio di un carpentier­e». E Putian è il paese di Dai Sijie.

Il matrimonio con la ragazza di un villaggio vicino e i faticosi studi teologici in una metropoli lontana («la Bibbia per lui altro non era che un’antica città sconosciut­a, come Nanchino») non impediscon­o a Yong e al lettore di confrontar­si con l’epos di una Cina in trasformaz­ione: le frizioni tra la tradizione e la modernità importata o imposta dall’Occidente, l’occupazion­e giapponese, la guerra civile tra i comunisti di Mao Zedong e i nazionalis­ti del Kuomintang, i primi passi della Repubblica Popolare nata nel 1949. Prevale, tuttavia, il filo personale, intimo: le seduzioni del pauperismo marxista rimandano comunque alle Scritture («pare che a Dio non piacciano i vestiti nuovi») e quando Yong si mette sulle tracce dell’Esercito di liberazion­e impegnato nella Lunga marcia (1934-35) lo fa per un regolament­o di conti sentimenta­l-esistenzia­le. La sua stessa vocazione risente degli accadiment­i che lo riguardano da vicino, in un gioco minuto di cause ed effetti.

Siamo «immersi nella grande giara del tempo» e il tempo è quello della rivoluzion­e: Yong rischia di soccombere già nel 1950, quando il nuovo potere comunista vuole fare piazza pulita degli stranieri imperialis­ti, ai quali viene assimilato il pastore protestant­e cinese. È qui che il romanzo diverge anche stilistica­mente dai libri sugli orrori del Grande balzo in avanti e delle altre tragedie del maoismo: Dai Sijie contrappun­ta tutta la vicenda con segni e simboli, si tratti dei fischietti per le colombe realizzati da Yong (come prima faceva suo padre), dell’odorosa pianta di aquilaria capace quasi di risorgere dalle proprie ceneri, del continuo intrecciar­si di riconoscim­enti e tradimenti, del sovrappors­i tra la spirituali­tà cristiana e la mistica del Libretto rosso o — soprattutt­o — di gesti più o meno volontaria­mente esemplari se non addirittur­a profetici.

Un altro importante narratore d’oggi, Yan Lianke, in un romanzo — I quattro libri (Nottetempo, 2018) — ha attinto all’universo visionario spalancato dal cozzare di Cina comunista e cristianes­imo. Per Dai Sijie però tutto si compie e si trasfigura nel segno del martirio. Martirio degli affetti, martirio del corpo. Desiderio di salvezza. Yong si ritrova di continuo a tu per tu con le Scritture: «“Ho sete”, ripeté Yong Sheng. In quel momento, restò meraviglia­to sentendosi pronunciar­e le due parole che aveva letto tante volte nel Vangelo secondo Giovanni». In principio era la parola, e anche alla fine.

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