Corriere della Sera - La Lettura
Meduse e attinie ti parlano di te
Nel primo romanzo di Caterina Mazzucato un reticolo di digressioni e descrizioni crea un parallelo tra la vicenda anche sentimentale del protagonista e l’universo del Mediterraneo
Io sono il mare è l’esordio narrativo della quarantenne bolognese Caterina Mazzucato, il cui abbrivio è costituito dalla scomparsa in mare, nei pressi della Scogliera degli Angeli, di una quindicenne e dal tentativo di un uomo appassionato di immersioni per riportarne alla luce il corpo.
L’impianto della trama si regge dunque sulla ricerca della fanciulla assente: una Bella Addormentata degli abissi, una novella Silvia, un’Albertine o una Annetta di cui il lettore ignora tutto, ma il cui possibile ritrovamento (progettato dall’anonimo protagonista a rischio della sua stessa vita) diviene simbolo di un impossibile sogno di rinascita, di riscatto agli occhi della donna amata e ugualmente perduta: «Questa ragazza scomparsa che non conosciamo e la sua storia che non ci riguarda — scrive il protagonista-narratore — in realtà sono l’occasione per espiare le mie colpe, la mia incapacità di sostenerti e superare il nostro lutto».
L’immagine tradizionale del mare fonte di vita, liquido amniotico che sprigiona energie positive, tende qui a rovesciarsi in quella di una forza arcaica che trascina verso il fondo, di un «groviglio torbido e liquido in cui passato e futuro sono indistinguibili», di un universo pieno di insidie, come quelle del pesce drago che, nascosto nei fondali, avvelena con il suo aculeo chi ne disturbi l’atavico torpore.
Il mare di cui parla Caterina Mazzucato è infatti certamente il Mediterraneo ma è anche un universo alieno popolato da animali preistorici, da cefali e molluschi, tartarughe e capodogli, cipree, balani e stelle di mare, gorgonie, anemoni e madrepore: catalogando, in una sorta di furor enciclopedico, decine e decine di organismi marini, dalle più semplici e arcaiche forme di vita alle più complesse ed evolute, si squaderna tra le mani del lettore un romanzo ricchissimo di digressioni scientifiche, una storia dei tentativi e degli azzardi compiuti dalla vita per rigenerarsi e riformarsi nel corso delle ere geologiche.
Scendendo negli abissi alla ricerca del cadavere della fanciulla scomparsa, il narratore elenca e riordina a ogni tappa i ricordi legati alla sua personale storia d’amore finita ma ripercorre anche la storia del mondo: ricapitola la sua esistenza individuale nell’evoluzione delle specie e del pianeta, inserisce la sua ontogenesi in una più generale filogenesi. Come l’anguilla che, per usare le parole di un Eugenio Montale qui implicitamente alluso, «risale in profondo, sotto la piena avversa,/ di ramo in ramo» cercando «vita là dove solo/ morde l’arsura», anche il narratore affronta il suo personale viaggio d’amore.
Lo stile metaforico che sorregge l’edificio narrativo è in effetti la prima chiave di lettura per avvicinare questo racconto: siamo di fronte a una storia che pone al centro i ricordi del narratore subacqueo e gli esseri viventi che dai tempi più remoti popolano le profondità marine — ricordi e creature equoree che diventano un tutt’uno indistinguibile, se è vero che «le immagini rimangono imprigionate nella rete come crostacei per loro natura pieni di agganci e appigli, i discorsi si perdono invece come meduse, gelatinose alghe che svaniscono al sole».
I 45 capitoli che costituiscono i momenti dell’immersione e della riemersione del protagonista organizzano una personalissima «teoria dell’amore» dove biologia e memoria diventano indistinguibili, dove cadono le barriere tra l’universo umano e quello marino — come nell’immagine evocata nelle pagine iniziali di Natalia Avseenko, l’atleta russa divenuta famosa nel 2011 per aver nuotato in apnea, per oltre dieci minuti e completamente nuda, nelle acque del circolo polare mettendo in scena una vera danza con i beluga. Ma tra le numerose digressioni che si aprono nel romanzo, una delle più belle è certamente quella che riguarda il Maestro di Bisso, una donna che sull’isola di Sant’Antioco ancor oggi tesse secondo le antiche regole tramandate dalle generazioni passate il bisso, o seta di mare: «Una fibra tessile di origine animale di particolare pregio che fin dall’antichità veniva lavorata e donata, […] ma mai venduta». Con questo filamento, tratto dalla valva della pinna nobilis, si dice fossero ricamati il Vello d’oro e le vesti di re Salomone.
Con lo stesso refe è intessuto Io sono il mare.