Corriere della Sera - La Lettura
Si vive per vivere, non per imparare a vivere
Dialoghi da commedia brillante, humor saggio: i sessantenni di Elvira Seminara
Il mare della Sicilia è un ottimo sfondo per l’amore, in ogni stagione. La primavera è perfetta per l’inizio di una storia, alla fine si addice ottobre quando gli operai smantellano le cabine e nei lidi rimangono i cumuli delle cose dimenticate: pinne, maschere, cappelli, flaconi ammaccati, teli scoloriti, odore di muffa, iodio, legno bagnato.
Affrontano separazioni, capelli bianchi, piccoli cambiamenti o rivoluzioni, hanno 59 anni, fanno finta di credere a un sacco di cose («che dimostriamo al massimo 48 anni, che non siamo depressi ma disincantati, che quella non è pancia ma colite»), gli amici che Elvira Seminara fotografa con una luce morbida, mostrando nelle rughe e nei cedimenti la paura di non riuscire a staccarsi dalla giovinezza. Ogni giovedì sera il gruppo si incontra per parlare, raccontarsi pettegolezzi e novità, perché scollinare è più dolce se lo si fa insieme. L’anagrafe non conta, «tutti abbiamo bisogno di una quota d’amore al giorno». A volte ne raccogli un mucchio «tutto in un punto e per un po’ sei a posto, altre volte raccatti briciole qua e là, metti insieme e impasti, ma ti basta appena per un giorno»: lo spiega Velia a Elvira, detta Elvis, che crede nella bibliomanzia e mentre legge Melville trova in spiaggia l’albero di un barca e lo trasforma in una trave del soffitto di casa. Elvis/Elvira intreccia in un racconto in prima persona le storie di Miriam, Olivia, Sophia, Cesare, Pietro e gli altri, una generazione stretta tra figli di 30 anni e genitori di 90, che crede negli sconti, nel primo Battisti, nel primo Battiato e nel primo Paul Auster, che ha troppo passato alle spalle e troppo futuro davanti. Gli amici si confessano davanti a una granita al cioccolato, parlano di ossessione identitaria o di intelligenza artificiale, costruiscono la filosofia del boomerang (ciò che lanci ti torna indietro e non è detto che sia un bene) mentre provano abiti fucsia in un camerino.
Sono gli ultimi del mondo vecchio e i primi del nuovo, hanno aperto e chiuso molte cose ma non si sentono alla sigla finale. La città di Catania fa da quinta, si stira in lunghezza sulla via Etnea e sul lungomare, si arrampica in altezza sull’Etna mentre tutti sembrano soffrire della stessa disforia: bisogno di fuggire, ansia di tornare. «E chi non parte ne parla sempre, rinvia la scelta, dorme il pomeriggio o nuota d’inverno — il trolley sotto il letto».
Elvira Seminara costruisce i suoi caratteri con la precisione delle parole, delle cose, dei gesti minimi, come quello della hostess Ada di cui l’architetto Beppe si innamora osservando lo «zelo altezzoso» con cui versa l’acqua su un volo Roma-Catania, come se fosse una prelibatezza. Dialoghi da commedia francese, humor caustico alla Nora Ephron, un velo di indulgenza steso su traditori e traditi. Nel disincanto e nell’insicurezza, nei tremori e nei timori, a sessant’anni è il momento giusto per capire una cosa, dice Elvis: «Si vive per vivere, non per imparare a vivere».