Corriere della Sera - La Lettura
Splende il sole nel cielo in una stanza
Interpretazioni Un arrangiamento per voce e organo del capolavoro di Gino Paoli verrà eseguito a settembre e ottobre nella chiesa milanese della peste dei «Promessi sposi»: sei ore al giorno, una ripetizione ininterrotta studiata dal performer Ragnar Kjartansson per la Fondazione Trussardi. Un po’ preghiera, un po’ ninna nanna, un po’ carillon. «La Lettura» ha assistito alle audizioni
Sono musiche per un camaleonte dell’arte contemporanea. Sono i Lieder di Franz Schubert e le Variazioni di Schumann; il Mozart delle Nozze di Figaro e lo Stravinskij della Sagra della primavera; A
Day in the life di Wes Montgomery e Festina lente di Arvo Pärt; le song di Bob Dylan e di Nico; il rock made in Usa della band The National e di due storici gruppi islandesi suoi conterranei (Mùm e Sigur Rós); l’extra-kitsch nordico degli Abba e la grande canzone d’autore italiana, quella de Il cielo in una stanza di Gino Paoli, melodia senza tempo e senza pareti, pubblicata nell’estate 1960 (giusto sessant’anni fa), su cui aleggia l’ombra di una prima versione, bellissima e irrepetibile, cantata da Mina.
La playlist di Ragnar Kjartansson (nato nel 1976 a Reykjavík, dove vive e lavora) è degna, per complessità e varietà, di uno dei Camaleonti raccontati da Truman Capote nel suo libro pubblicato per la prima volta nel 1960 (di nuovo quell’anno). Mentre lo stesso artista, che ha fatto della performance di lunga o lunghissima durata (in stile Luca Ronconi) con tanto di suoni & musica una delle sue cifre più riconoscibili, potrebbe rivelarsi appunto uno di quei camaleonti «scarlatti, verdi, lavanda» che si trasformano sotto gli occhi dello scrittore americano in un «pubblico sensibile, assorto nella musica aleggiante» e che (fisicamente) somigliano «a una serie di note musicali trascritte».
Con The Sky in a Room, il progetto voluto dalla presidente Beatrice Trussardi e dal direttore artistico Massimiliano Gioni «nel diciottesimo anno di attività nomade della Fondazione Nicola Trussardi», Kjartansson metterà in scena a settembre, a Milano, la sua versione de Il cielo in
una stanza. O, meglio, rimetterà in scena
la performance realizzata nel 2018 per il National Museum of Wales di Cardiff. Ogni giorno, cantanti professionisti si alterneranno, uno alla volta, all’organo della Chiesa di San Carlo al Lazzaretto — detta anche San Carlino, la chiesa della peste dei Promessi sposi — per eseguire un arrangiamento (per voce e organo) che verrà ripetuto ininterrottamente per sei ore al giorno, nel pomeriggio, dalle 14 alle 20, durante la pausa delle funzioni religiose. Sempre per sei ore, ma a Mosca nel 2019, Ragnar aveva ripetuto (con un pianista e una grande orchestra) la frase « Sorrow conquers happiness » solo per resuscitare lo spirito dell’Oblomov di Goncharov.
Ancora una volta non sarà la solita musica. Piuttosto, spiega il curatore Gioni, «potrà trasformarsi — a seconda di chi l’ascolterà — in un mantra, in una ninna nanna infinita, in un carillon rotto, in una litania, in una preghiera, in un esercizio di stile alla Queneau sempre uguale e sempre diverso, in un balletto in bilico tra perfezione e improvvisazione, tra professionismo e improvvisazione, tra noia e sublime, tra angoscia e libertà». Ma perché proprio Il cielo in una stan
za? «La performance — dice Kjartansson a “la Lettura” — esiste solo perché esiste la canzone che ho scoperto dodici anni fa, quando ho comprato un vecchio longplaying di Paoli del 1971, Rileggendo vec
chie lettere d’amore era il titolo e conteneva anche Il cielo ». Nasce così una passione improvvisa e fortissima con radici ancora profonde: « Il cielo in una stanza è l’unica canzone che conosco che rivela una delle caratteristiche fondamentali dell’arte, quella di trasformare lo spazio. In un certo senso, è un’opera concettuale, ma anche una celebrazione del potere dell’immaginazione di trasformare il mondo attorno a noi, una poesia che racconta di come l’amore e la musica possano espandere anche lo spazio più piccolo, fino ad abbracciare il cielo e gli alberi». Un sogno di fuga ancora «più perfetto» nei tempi del post- lockdown.
Trenta minuti compresi solfeggi, riscaldamento vocale e sanificazione della tastiera: questo il tempo che hanno avuto a disposizione i candidati che si sono presentati alle audizioni live di Milano con l’artista, il curatore e la vocal coach Sophie Fetotaki (che aveva già partecipato come cantante alla performance di Cardiff) in diretta streaming rispettivamente da Reykjavík e da New York. Ventisette candidati: 6 quelli live di cui 5 donne (2 italiane, 1 di origine cinese, 1 di origine coreana, 1 di origine albanese) e un uomo (di origine cinese) più 21 in video di cui 15 donne (11 italiane, 1 di origine albanese, 1 di origine azera, 1 di origine ucraina, 1 di origine giapponese) e 6 uomini (tutti italiani). Cantanti e organisti che vivono tutti stabilmente in Italia, che hanno studiato (magari all’estero) e che sono venuti in Italia per perfezionarsi e che ora lavorano qui come cantanti lirici, vocal coach, insegnanti di piano. Voci a volte sottili, a volte potenti che celebravano il potere dell’immaginazione. E che, inesorabilmente, si ritrovavano a confrontarsi con l’ombra di Mina (per loro il verdetto arriva a giorni, molto apprezzati dalla giuria live, la candidata numero 1 e 4, entrambe italiane, forse non a caso).
«Ragnar e io abbiamo lavorato insieme in varie occasioni e ogni volta c’è stata di mezzo la musica — prosegue Gioni —: la più assurda alla Biennale di Venezia del 2013, quando per la sua performance S.S.
Hangover ha chiesto, prendendo stavolta come modello Wagner, a sei musicisti di suonare la stessa canzone su una barca per sei mesi. Proprio alla festa di chiusura della Biennale, in onore di tanti artisti e dei musicisti esausti che l’avevano assecondato in questa avventura, Ragnar aveva cantato Il cielo in una stanza. Ma l’idea della canzone come momento di pace o più semplicemente di riposo si ritrova frequentemente nei progetti di Kjartansson: «Le canzoni italiane sono capaci di fare sempre meraviglie, soprattutto nei bar degli hotel di tutto il mondo; ad esempio a Mosca, qualche anno fa, dopo la mia performance al Majakovskij e dopo la cena, ho cantato prima Volare e poi
Bella ciao ».
Cresciuto in un contesto artistico e musicale colto (i genitori sono attori teatrali di successo, la madrina è una cantante folk professionista) e celebrato da mostre (tra l’altro all’Hangar Bicocca di Milano, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, al New Museum di New York e al Barbican di Londra) Kjartansson sembra non volersi dimenticare che tutto per lui è iniziato quando, ancora adolescente, suonava in gruppi che si chiamavano Kanada, i Kósý e (specialmente) i Trabant. Una musica che l’artista ha scelto poi di coniugare alla tradizione del teatro, della letteratura e della pittura nordica del Novecento, con riferimenti a Tove Janson, Halldór Laxness, Edvard Munch e August Strindberg.
Per don Marco Artoni, il sacerdote della Chiesa di San Carlo al Lazzaretto, «questa performance è una bella opportunità per far conoscere attraverso un testo e u n a musi c a n ot i s s i mi u n a fo r ma d i espressione artistica che sa unire uno strumento tradizionale come l’organo con un momento di comunicazione fortemente innovativo. Credo che proporre questo evento nel cuore di ciò che fu il Lazzaretto di Milano in un anno come questo, dolorosamente segnato dalla pandemia, sia porre un segno positivo che può alimentare al tempo stesso la memoria e la speranza».
Con Il cielo in una stanza si vuole guardare al futuro: ne sono convinti sia l’artista che il curatore. Che racconta come la Fondazione Trussardi abbia scelto proprio Kjartansson: «È stata molto di più che una coincidenza — dice—. Per la settimana del Miart, nell’aprile 2020, stavamo pensando a un’opera con Olafur Eliasson che si intitolava The collectivity
project e che prevedeva la partecipazione del pubblico e dei passanti per costruire una grande città immaginaria con tonnellate di mattoncini Lego».
O v v i a me n t e q u a n d o è s c o p p i a t a l’emergenza Covid un’opera come questa si è rivelata immediatamente impossibile. Che fare? «Abbiamo iniziato a pensare a come si potesse continuare a fare arte pubblica, ma sostituendo all’idea di partecipazione quella di intimità, persino di solitudine, concetti che in questi ultimi mesi si sono tinti di tantissime sfumature complicate, dolcissime e amare allo stesso tempo. Così è nata l’idea di presentare un’opera che potesse essere visitata anche da una persona alla volta. O persino, facendo i dovuti scongiuri, che uno non dovesse neanche vedere. In fondo l’idea che in una piccola chiesa di Milano ci sia, ogni giorno, per sei ore, qualcuno che ripete all’infinito lo stesso ritornello è un pensi e ro c he bas t a di per s é : è un’opera che ti puoi portare in testa, anche senza vederla».
Gioni conclude con una speranza: «Mi auguro che la canzone di Ragnar valga anche da esorcismo. Sarebbe una bella ironia se l’artista che ha trasformato la ripetizione in un’opera d’arte, che ha fatto della ripetizione di suoni e gesti un elemento fondamentale di meditazione e di riflessione nelle sue composizioni e nelle sue coreografie, che ha sempre giocato con la malinconia, ci aiutasse stavolta a sconfiggere il dolore e a scongiurare che il peggio possa ripetersi di nuovo» .