Corriere della Sera - La Lettura
«Annotavo fatti, Burioni, Lilli Gruber... Poi mi sono accorto che il sogno è più longevo dell’attualità»
come camminarsi dentro…
«È sempre stato così per me. Uno vive solo se lo può raccontare. È una cosa un po’ folle, perché qualcuno ti potrebbe dire: che bisogno hai, vivi la giornata... Invece io è come se avessi un godimento tardivo, con il riassunto della giornata. È tipico di chi scrive diari».
Le passeggiate con Bacco, il cane, che lei definisce uno dei beni mobili più ambiti del momento, sono vere?
«Non c’è niente di inventato. La sequenza dei cani che incontravo nel quartiere durante il mio quarto d’ora d’aria era da morire dal ridere: in 4.115 passi corrispondenti a 2.881 metri c’erano appuntamenti fissi con il cagnaccio che difende la villa dei pini sbucando dal nulla, un secondo di razza incerta che fa bau bau per proteggere un giardinetto da ceto medio in caduta libera, un terzo che è un cosino ringhioso e rauco di piccola taglia, il quarto è un Lagotto romagnolo, il quinto una bassotta con la coda mozza, il sesto un vecchio pastore tedesco... L’ultimo sta su un terrazzino a monitorare tutto...».
Un po’ come lei che nei suoi diari ha cercato di fiutare l’aria di casa e quella del quartiere...
«Vado in giro con quadernini pieni zeppi di cose... Il diario diventa tanta roba quando non scrivo per il teatro, poco se scrivo spettacoli, ma di solito annoto in mille modi e in qualunque momento. Quando viaggio in macchina, da solo e nel silenzio totale, porto avanti tanti discorsi aperti... Facendo molto repertorio, spettacoli come Benvenuti in casa Gori, che è in scena da 33 anni, continuo a tornarci sopra. Sono tutte storie aperte».
Lo stesso per il «Panico»?
«È tutto ancora inaffidabile e non definitivo. Lo sforzo è quello di trovare una discorsività discontinua. Non facile, vorrei parlare del coronavirus parlando il meno possibile del coronavirus, quindi togliendo tutto quello che richiama termini come lockdown, quarantena, Covid, e lasciando una nuvola mentale di impressioni... Nello scrivere il diario ogni giorno, io mi riferivo a cose concrete, richiamavo persone e fatti, nella prima lettura c’erano persino Lilli Gruber, Enrico Mentana, Roberto Burioni, poi mi sono accorto che il sogno è più longevo dell’attualità».
Donald Trump però è rimasto…
«Fa parte delle inezie involontariamente shakespeariane. Mi dicevo: secondo me Trump quando pensa, pensa a cosa deve pensare, ma prima di saperlo gli scappa di parlare! Oppure mi sono soffermato sui tanti ragazzi con la testina a pratino all’inglese: il parrucchiere sotto casa mi dice che ogni settimana tutti i pischelli devono rifarsi i bordi dei capelli perché non possono crescere tranquilli se non hanno in testa gli allineamenti geometrici e i ghirigori. Sono cose futili, a loro modo mistiche: momenti in cui la facezia colpisce duro».
Si parte dal festival di Cividale: un’idea di regia e scenografia?
«La scena sarà una scatola nera, con una regia di luci. Poi lui avrà in mano uno specchio con il quale confrontarsi, un sé stesso rovesciato dal quale trae luce. Pochissimi elementi perché tutto è dato dalle sfumature delle voci diverse: in fondo è il racconto di una schizofrenia, di una testa che rimbalza come la pallina di un flipper, producendo suoni e luci...».
Da quali passioni teatrali viene fuori tutto questo?
«Ho imparato da tanti grandi e grandissimi. Sono sempre stato affascinato dalla scrittura della Beat Generation e della Lost Generation americana, dai surrealisti, dai pazzi di Samuel Beckett e di Eugène Ionesco. Noi Giancattivi eravamo dei surreali, per cui guardavamo alle sintesi futuriste, al teatro-appartamento dei Paesi dell’Est, al cabaret francese, a quello anglosassone... In teatro le prime cose che mi hanno colpito sono Leo e Perla per il modo in cui abitavano il palcoscenico: non si andava a vederli a teatro, stavano sul palcoscenico come fossero a casa loro. Come Giancattivi volevamo sovvenzionare la loro Filumena Marturano, ma Eduardo De Filippo non volle concedere i diritti. Il primo spettacolo che ho visto da adulto è stato Nostra signora dei Turchi di Carmelo Bene e allora il mio cervello è esploso, poi mi ha impressionato La classe morta di Tadeusz Kantor: non sono neanche riuscito ad applaudire tanto ero paralizzato dall’emozione».
La toscanità, in teatro come in letteratura, non è solo linguistica. Lei come la definirebbe?
«Non lo so. Abbiamo questa strategia di allontanare da noi la verità, che è un modo di fotterla, di stuprarla, farla diventare un fatto estetico. Il guaio è che, un po’ come succede ai napoletani, abbiamo sempre il desiderio di stupire attraverso la parola. Vai in un bar, dici: “Mi fai un caffè?” e il barista ti risponde: “Sei sicuro?”... Chiunque assume l’aspetto del battutaro, come il tassista a Napoli, se gli dai un assist. È quasi una mania. A me piace la battuta estemporanea ma preferisco quando dietro c’è un pensiero, una verità nascosta. Invece di solito... c’è l’obbligo di essere sempre simpatici. Io ho un’insofferenza verso la toscanità, tant’è vero che mi sono definito certe volte un toscano pentito. Dico sempre: attenzione, il linguaggio è una pianta che va saputa potare, non si può sfruttare biecamente perché poi si secca».