Corriere della Sera - La Lettura

«Annotavo fatti, Burioni, Lilli Gruber... Poi mi sono accorto che il sogno è più longevo dell’attualità»

- Paolo Di Stefano

come camminarsi dentro…

«È sempre stato così per me. Uno vive solo se lo può raccontare. È una cosa un po’ folle, perché qualcuno ti potrebbe dire: che bisogno hai, vivi la giornata... Invece io è come se avessi un godimento tardivo, con il riassunto della giornata. È tipico di chi scrive diari».

Le passeggiat­e con Bacco, il cane, che lei definisce uno dei beni mobili più ambiti del momento, sono vere?

«Non c’è niente di inventato. La sequenza dei cani che incontravo nel quartiere durante il mio quarto d’ora d’aria era da morire dal ridere: in 4.115 passi corrispond­enti a 2.881 metri c’erano appuntamen­ti fissi con il cagnaccio che difende la villa dei pini sbucando dal nulla, un secondo di razza incerta che fa bau bau per proteggere un giardinett­o da ceto medio in caduta libera, un terzo che è un cosino ringhioso e rauco di piccola taglia, il quarto è un Lagotto romagnolo, il quinto una bassotta con la coda mozza, il sesto un vecchio pastore tedesco... L’ultimo sta su un terrazzino a monitorare tutto...».

Un po’ come lei che nei suoi diari ha cercato di fiutare l’aria di casa e quella del quartiere...

«Vado in giro con quadernini pieni zeppi di cose... Il diario diventa tanta roba quando non scrivo per il teatro, poco se scrivo spettacoli, ma di solito annoto in mille modi e in qualunque momento. Quando viaggio in macchina, da solo e nel silenzio totale, porto avanti tanti discorsi aperti... Facendo molto repertorio, spettacoli come Benvenuti in casa Gori, che è in scena da 33 anni, continuo a tornarci sopra. Sono tutte storie aperte».

Lo stesso per il «Panico»?

«È tutto ancora inaffidabi­le e non definitivo. Lo sforzo è quello di trovare una discorsivi­tà discontinu­a. Non facile, vorrei parlare del coronaviru­s parlando il meno possibile del coronaviru­s, quindi togliendo tutto quello che richiama termini come lockdown, quarantena, Covid, e lasciando una nuvola mentale di impression­i... Nello scrivere il diario ogni giorno, io mi riferivo a cose concrete, richiamavo persone e fatti, nella prima lettura c’erano persino Lilli Gruber, Enrico Mentana, Roberto Burioni, poi mi sono accorto che il sogno è più longevo dell’attualità».

Donald Trump però è rimasto…

«Fa parte delle inezie involontar­iamente shakespear­iane. Mi dicevo: secondo me Trump quando pensa, pensa a cosa deve pensare, ma prima di saperlo gli scappa di parlare! Oppure mi sono soffermato sui tanti ragazzi con la testina a pratino all’inglese: il parrucchie­re sotto casa mi dice che ogni settimana tutti i pischelli devono rifarsi i bordi dei capelli perché non possono crescere tranquilli se non hanno in testa gli allineamen­ti geometrici e i ghirigori. Sono cose futili, a loro modo mistiche: momenti in cui la facezia colpisce duro».

Si parte dal festival di Cividale: un’idea di regia e scenografi­a?

«La scena sarà una scatola nera, con una regia di luci. Poi lui avrà in mano uno specchio con il quale confrontar­si, un sé stesso rovesciato dal quale trae luce. Pochissimi elementi perché tutto è dato dalle sfumature delle voci diverse: in fondo è il racconto di una schizofren­ia, di una testa che rimbalza come la pallina di un flipper, producendo suoni e luci...».

Da quali passioni teatrali viene fuori tutto questo?

«Ho imparato da tanti grandi e grandissim­i. Sono sempre stato affascinat­o dalla scrittura della Beat Generation e della Lost Generation americana, dai surrealist­i, dai pazzi di Samuel Beckett e di Eugène Ionesco. Noi Giancattiv­i eravamo dei surreali, per cui guardavamo alle sintesi futuriste, al teatro-appartamen­to dei Paesi dell’Est, al cabaret francese, a quello anglosasso­ne... In teatro le prime cose che mi hanno colpito sono Leo e Perla per il modo in cui abitavano il palcosceni­co: non si andava a vederli a teatro, stavano sul palcosceni­co come fossero a casa loro. Come Giancattiv­i volevamo sovvenzion­are la loro Filumena Marturano, ma Eduardo De Filippo non volle concedere i diritti. Il primo spettacolo che ho visto da adulto è stato Nostra signora dei Turchi di Carmelo Bene e allora il mio cervello è esploso, poi mi ha impression­ato La classe morta di Tadeusz Kantor: non sono neanche riuscito ad applaudire tanto ero paralizzat­o dall’emozione».

La toscanità, in teatro come in letteratur­a, non è solo linguistic­a. Lei come la definirebb­e?

«Non lo so. Abbiamo questa strategia di allontanar­e da noi la verità, che è un modo di fotterla, di stuprarla, farla diventare un fatto estetico. Il guaio è che, un po’ come succede ai napoletani, abbiamo sempre il desiderio di stupire attraverso la parola. Vai in un bar, dici: “Mi fai un caffè?” e il barista ti risponde: “Sei sicuro?”... Chiunque assume l’aspetto del battutaro, come il tassista a Napoli, se gli dai un assist. È quasi una mania. A me piace la battuta estemporan­ea ma preferisco quando dietro c’è un pensiero, una verità nascosta. Invece di solito... c’è l’obbligo di essere sempre simpatici. Io ho un’insofferen­za verso la toscanità, tant’è vero che mi sono definito certe volte un toscano pentito. Dico sempre: attenzione, il linguaggio è una pianta che va saputa potare, non si può sfruttare biecamente perché poi si secca».

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