Corriere della Sera - La Lettura
POVERO SHOSTA KOVICH COME TI CONSOLA BENE
In automobile, ascolta la Sinfonia n. 10 di Shostakovich. Di colpo, deve accostare. Non ce la fa più, assalito da un tremore convulso. «Il dolore furibondo, per tanti anni represso, aveva trovato una via d’uscita»... Stephen Johnson, musicologo britannico, in Come Shostakovich mi ha salvato la vita ( traduzione di Marco Bertoli, Edt, pp. 155, € 13) trasforma le proprie sventure (madre bipolare, depressione, propositi di suicidio) in un appassionato inno al potere catartico della musica. Deve tutto a quella del genio russo, all’apparenza così poco consolatoria.
Con scrittura avvincente, Johnson ripercorre la vita tormentata e l’opera del compositore, la sofferta ambiguità dei rapporti con il potere sovietico, per mostrare insieme quale musica e, soprattutto, chi abbia determinato la sua «redenzione mentale»: l’esperienza di un uomo che nella sua arte sublima la tragedia dell’io e di tutto un popolo. Con lui, Johnson condivide una speciale empatia. La sua musica lo salva non per edonismo, ma per identità profonda.
I contorti sarcasmi, le allusioni, le esaltazioni beffarde della Quarta o della Quinta Sinfonia, della Deci
ma o del Quartetto op. 110, l’«addio alla vita» in cui Shostakovich appare, autocitandosi, «fantasma al suo stesso convito», sono «funi tese attraverso l’abisso»: il modo in cui la musica offre all’uomo un valore, quel che il violino della sorella fu per Gregor Samsa; e, mentre dà «forma ai sentimenti», ci invita «a identificarci con i suoi procedimenti formali».