Corriere della Sera - La Lettura
Alla Biennale il teatro osa Il cartellone di Latella
Prima le registe donne, poi l’attore performer, quindi il ruolo del drammaturgo... E ora... Arrivato al quarto (e ultimo) atto della sua direzione artistica della Biennale Teatro di Venezia, il regista nato a Castellammare di Stabia e residente a Berlino esplora ciò che per sua natura è difficile da esplorare, figuriamoci da superare: il limite che ci viene imposto (da istituzioni, convenzioni, noi stessi). In queste pagine tutti gli spettacoli in scena
Biennale Teatro, atto quarto. Antonio Latella approda all’ultimo anno della sua direzione a Venezia affrontando con la consueta temerarietà un tema spinoso: la censura. L’obiettivo di Nascondi(no), questo il titolo dell’edizione 2020 (14-25 settembre), è ambizioso: portare alla luce artisti considerati «di nicchia», e dunque «nascosti». Artisti del circuito cosiddetto off che, pur nella ristrettezza di mezzi economici, spesso propone una programmazione coraggiosa, audace.
Audace come la scelta di Latella di attribuire i due Leoni a due figure del teatro considerate «laterali». Il Leone d’Oro alla carriera assegnato a Franco Visioli, sound designer; quello d’Argento ad Alessio Maria Romano, regista e coreografo. «Due riconoscimenti — spiega Latella — assegnati a due professionalità spesso “censurate”. Eppure rappresentano il 70-80 per cento di uno spettacolo. Il nostro dolore, oggi, è per gli attori che non lavorano a causa dell’emergenza sanitaria. Ma vale per tutte le maestranze “nascoste”. Costumisti, scenografi, disegnatori, coreografi, light designer. Questi due premi “nobilitano” tutta la categoria del teatro».
Ma chi stabilisce i criteri di ciò che può o non può essere visto? A quali esigenze, censure, pregiudizi, finalità questi criteri rendono conto? Latella è partito dalla poca visibilità che gli artisti del teatro contemporaneo hanno in Italia e fuori. «Il progetto era nato come idea già due anni fa. Durante il secondo e terzo “atto” della mia direzione la Biennale ha ospitato diversi operatori stranieri, tutti molto curiosi di conoscere i giovani teatranti italiani. Mi ero ripromesso, per il mio quarto e ultimo anno, di fare diventare questa “piattaforma” la presentazione di un teatro in qualche modo “negato” dalle istituzioni, che sempre puntano su nomi già consolidati. Esiste una sorta di “censura”. Mi sono chiesto, come direttore artistico, cosa potevo fare per “cambiare” le carte. Con Federico Bellini, drammaturgo con cui da molti anni collaboro, ci siamo interrogati su cosa è una direzione, e come, consapevolmente o meno, anche una direzione artistica “censura”, scegliendo quali spettacoli fare vedere e quali no. Abbiamo viaggiato, cercato, e visto in scena quanti più artisti possibili. Non abbiamo scelto gli spettacoli, ma un “tema”: la censura appunto».
Sarà dunque, l’ultima di Latella, una Biennale «senza rete». Ventisette spettacoli in prima assoluta, e, in chiusura, una serie di brevi passaggi delle prove dei registi finalisti della Biennale College Teatro. «Mi sono confrontato — prosegue Latella — con gli artisti sul fatto che, anche se abilmente nascosta, la censura esiste. Mi hanno mostrato a grandi linee cosa volevano fare. Poi ci siamo incontrati tutti insieme. È stata un’occasione straordinaria da cui è nata questa sorta di “collettiva”, quasi un “padiglione Italia” del teatro, che vedrò con loro. Perché nemmeno io so bene cosa metteranno in scena».
L’emergenza sanitaria ha ovviamente costretto i partecipanti a una rielaborazione artistica delle loro proposte. «Il Covid è stato un condizionamento imprescindibile, gli artisti sono stati oggettivamente “censurati” dalla situazione che stiamo vivendo. Ho chiesto loro di non ignorarla, di inserire all’interno del processo creativo questa costrizione. Di prenderne consapevolezza». Il compito fondamentale di questo quarto “atto” era mostrare il lavoro di questi giovani artisti agli operatori stranieri. Che però non potranno esserci, o comunque non tutti. «Con il nuovo presidente Roberto Cicutto — riprende Latella — è nata l’idea di creare una giuria internazionale che potrà seguire tutto il lavoro e, in conclusione, darà segnalazione della creazione più apprezzata. Non un bando, né un concorso: i ragazzi sanno che quello espresso non sarà un giudizio di valore ma un modo per raccontare anche all’estero quello che abbiamo fatto. È importante per loro, per i giovani, che formano gran parte del palinsesto di questo ultimo atto. Abbiamo confermato tutti i ragazzi che sono nati sotto il tutoraggio della Biennale. A tutti loro ho chiesto di non “censurarsi” nella proposta. Di pensare a progetti che in un teatro istituzionale verrebbero rifiutati. Di esplorare territori “altri”, anche pericolosi. Di non pensare a spettacoli che rispondano a leggi di mercato e di circuitazione, modalità tipicamente italiane. Stanno portando il loro quadro a questa collettiva della Biennale. E, come il programma mostra, le proposte sono molto particolari. Credo sia una grande opportunità. Qualcosa mai successo prima. Come mai c’era stata una Biennale interamente dedicata alla regia femminile, o di soli “dramaturg”. Molti operatori stranieri, incuriositi dal cartellone, ci hanno chiamato. Speriamo che da qui al 14 settembre qualche misura oggi in vigore possa essere allentata».
Nel caso del nostro teatro, del teatro italiano, la «censura» ha più a che vedere con motivazioni economiche o ideologiche? «La mia riflessione — considera il regista — parte dal momento che stiamo vivendo. Un momento in cui un virus ha fermato tutto. Si parla di “ripartenza”. Di “ripartire”. È sbagliato. Dobbiamo parlare di partenza, di partire. Abbiamo un’occasione unica. Venuto meno l’obbligo dei teatri pieni, il distanziamento sociale non lo consente, è il momento ideale per alzare l’asticella della proposta. Per portare in scena autori “non rappresentabili” per paura di perdere pubblico. In
vece, ancora una volta, si fanno gli stessi titoli, con gli stessi attori conosciuti. Fino a che punto, mi chiedo allora, si tratta di un problema di soldi? È vero, l’Italia non ha i finanziamenti della Germania, che può permettersi di fare ricerca teatrale all’interno dei teatri istituzionali. È miope non vedere le occasioni che la storia ci chiede di cogliere per “rinnovare” anche il pubblico. Quindi: è sì una questione economica, ma anche di coraggio. Non dico che i direttori artistici italiani non siano coraggiosi. Solo, la paura è più forte del coraggio. E c’è, credo, anche un po’ di pigrizia. La pigrizia di uscire dal proprio teatro per conoscere quello che c’è “fuori”. Chi ha potere istituzionale ha il dovere di fare scouting, di trovare quello che ci rappresenterà, non quello che già ci rappresenta». Niente più Shakespeare, Cechov, Pirandello? «No. In tanti non hanno visto I sei personaggi o Romeo e Giulietta. Bisogna, però, anche avere il coraggio di scardinare i linguaggi per permettere al pubblico di aprire lo sguardo. Oggi Pina Bausch è sulla bocca di tutti. Ma Pina Bausch svuotava i teatri. Beckett svuotava i teatri. Autori che con la potenza del loro linguaggio innovativo hanno segnato la differenza nella storia, condizionando il futuro».
Gli artisti in programma sono tutti giovani. Ma non è l’età, sostiene il regista, il solo filo rosso che li lega. «Hanno in comune la potenza autoriale. La volontà di parlare, di scrivere a 360 gradi il proprio spettacolo. Anche quando scelgono altri autori, si tratta di testi che, in qualche modo, si scrivono sul corpo. Alcuni partono da qualcosa di intimo, che poi “spostano” perché diventi un gesto culturale che riguarda tutti. È come se questa fosse una Biennale di cinema d’autore. È interessante, perché più che vedere degli spettacoli, si entrerà in mondi autoriali». Sembra un paradosso: un’Italia che vuole essere «autore», non ha scuole di scrittura. «Ci sono scuole come la Paolo Grassi che hanno prodotto ottimi autori. Quando quattro anni fa aprii la Biennale, la parola drammaturgia non era quasi neanche pronunciata. Pochi conoscevano la differenza tra drammaturgo e autore, e ancora torniamo alla censura. Oggi tutte le giovani compagnie hanno un loro drammaturgo. Se avessi un sogno, dopo la Biennale, aprirei un “luogo del teatro” destinato a chi il teatro vorrebbe farlo ma non sa come. Una sorta di Erasmus, dove entri scegliendo magari la regia e ti accorgi poi che vuoi fare il light designer. Dare ai ragazzi competenze forti su tutto il settore, renderli competitivi».
Con questa Biennale Latella termina l’esperienza di direttore artistico. «Mi mancherà soprattutto il lavoro di curatela, seguire e curare gli artisti come io vorrei essere seguito e curato. Poterlo fare per me è stata un’occasione grandiosa. Fare scouting è difficile, non è come portare in scena Ostermeier, Marthaler, Milo Rau. Tra i nomi dei miei ragazzi magari non c’è il wow! di turno, sono talenti in fieri. Questo sono stati i miei quattro anni, un grande scouting. E per la prim volta, nel catalogo della Biennale, dieci mesi di lavoro con Bellini, mi espongo anche io. Spiego perché ho scelto un artista piuttosto che un altro. Andava fatto, non potevo autocensurarmi».