Corriere della Sera - La Lettura
L’uomo climatizzato
L’economia dei combustibili fossili ha creato un’illusione di onnipotenza e di indipendenza, al punto da farci dimenticare che il «meteo» non è un dato fisso, bensì il prodotto di una complessa molteplicità di relazioni. Lo sapeva bene Homo Faber che popolò il sito di Cuccuruzzu, nel sud della Corsica, in piena età del bronzo. Lo sappiamo meno oggi
Nelle settimane scorse ho avuto occasione di visitare uno straordinario sito preistorico, Cuccuruzzu, nel sud della Corsica. L’occupazione umana è attestata dal II millennio a.C, ma probabilmente è ben anteriore. Quattromila anni fa, piena età del bronzo, popolazioni di allevatori e coltivatori di cereali (che non disdegnavano caccia e raccolta) realizzarono in questa altura una sorta di costruzione fortificata, dotata di abitazioni e ripari, sfruttando la presenza di particolari rocce, scavate e levigate dal vento. Le varie «stanze» erano dedicate alla fabbricazione dei vasi di argilla, alla lavorazione della lana, all’abbattimento e macellazione degli animali, alla lavorazione dei cereali e, ovviamente, all’abitazione. Quelle rocce particolari sono dette in lingua corsa tafonu (da cui l’italiano «tafone»): si tratta di graniti che subiscono una lenta, ma progressiva azione di disgregazione e levigazione, che crea cavità ricurve, sia verso l’alto sia verso il basso. Ne è ricco il territorio di Arzachena, in Sardegna. I tafonu, in modo controintuitivo rispetto alla nostra idea di «solidità» della roccia, sono pietre «viventi», che si trasformano incessantemente (anche se con velocità geologica).
Si può dire che i primi esseri umani che fecero di Cuccuruzzu la loro abitazione e il loro luogo di lavoro co-costruirono il sito con gli altri soggetti non umani. È difficile qui tracciare un confine tra manufatto e oggetto naturale, tra natura e cultura. Furono realizzati certo alcuni muretti a secco, innalzate grandi pietre come architrave, ma al contempo sono state l’aria, l’acqua, il caldo, il freddo e le radici degli alberi a fare di Cuccuruzzu quel sito che ancora oggi può essere visitato. Insieme a soggetti non umani come le pietre e il vento, quegli antichi abitanti della Corsica stavano costruendo un clima adatto ad abitare: erano già, pienamente, uomini climatizzati. I tafonu garantivano riparo dalle piogge, dai venti freddi dell’inverno e dalle calure estive: i boschi appena più in basso stemperavano il caldo e l’acqua di un torrente poco più a valle creava a sua volta un’altra «bolla» climatica. Sappiano dagli archeologi che fin dalle prime occupazioni dell’isola, le popolazioni umane sfruttavano la differenza di temperatura tra la costa e le montagne con migrazioni stagionali e, più tardi, con il fenomeno della transumanza. Altri migranti climatici, i turisti, occupano oggi il sito.
Proprio per la sua costitutiva nudità e incompletezza biologica, Homo Sapiens (o Homo Faber come sarebbe forse più appropriato chiamarlo) è da sempre un essere climatizzato, che cioè interagisce, lavora, gioca per creare un clima (termine che, significativamente, allude anche a dimensioni sociali e morali) favorevole, sfruttando ripari, acque termali, versanti esposti al sole o all’ombra (in tutte le lingue alpine esistono termini appositi per esprimere i due concetti, come nel provenzale adrech, dal latino ad rectum solis, «dritto verso il sole» e ubac, opacum, «scuro»).
La climatizzazione dell’essere umano ha conosciuto, con l’avvento dei combustibili fossili, un’estensione estrema. Viaggiamo ore in auto sotto il sole di agosto grazie a potenti climatizzatori azionati dal motore; lasciamo la bolla di frescura del veicolo per entrare in un centro commerciale che sprizza, fin sulle piazze esterne, aria fresca; il campus universitario in cui lavoro, costruito in acciaio e vetro, non prevede la possibilità di aprire le finestre, ed è dunque perennemente climatizzato. Siamo da sempre alla ricerca di un clima favorevole, ma qual è la profonda differenza tra noi, figli del petrolio, del carbone e del gas metano, e i nostri antenati di Cuccuruzzu? In fondo è questa la domanda che anima il libro di Mauro Van Aken, Campati per aria (elèuthera, 2020). Se da tempo immemorabile siamo «coltivatori del cielo» e designer del clima, l’Homo comfort, come lo chiama Stefano Boni (elèuthera, 2014) ha creato tali barriere, reali e immaginarie, tra sé e gli altri elementi non umani che creano il clima, al punto da perdere consapevolezza della dipendenza che abbiamo dall’aria che ci circonda. L’uomo contemporaneo vive così una sorta di «solipsismo» climatico: basta un click o una manovella per azionare il freddo e il caldo, come se queste operazioni non avessero effetti sull’atmosfera che ci avvolge.
L’economia dei combustibili fossili ha creato un’illusione di indipendenza e onnipotenza, al punto da farci completamente dimenticare che il clima non è un dato fisso, il quadro di una natura morta, bensì il prodotto di una molteplicità complessa di relazioni. Chiusi nelle nostre rassicuranti bolle climatiche alimentate dal petrolio, abbiamo «abolito» le stagioni, abbiamo disimparato a riconoscere i segni del tempo: a differenza dei vignaioli che frequenta Van Aken non sappiamo avvertire la brezza che segna la fine della calura di un giorno estivo. Prevedere il clima che cambia è ormai prerogativa di un linguaggio scientifico lontano dalla quotidianità. Per questo i continui e preoccupanti allarmi che il riscaldamento del pianeta ci invia (scioglimento dei ghiacci, inondazioni, calure urbane irrespirabili) cadono nel vuoto. Non c’è solo il negazionismo dei potenti a spiegare la nostra incapacità di immaginare un futuro eco-compatibile, ma anche il nostro comune diniego che nasce da un’incapacità ormai diffusa di cogliere il nostro essere-nell’-atmosfera.
Se Bruno Latour ci invita da tempo ad «atterrare», a tornare con i piedi per terra, a ragionare terra terra, Van Aken rivaluta il nostro rapporto con l’aria. È tempo di sovvertire il significato di metafore alquanto diffuse: occorre mettere la testa tra le nuvole, cogliere il nostro essere campati per aria, renderci conto che l’aria rischia davvero di essere «fritta» dalla CO2. Siamo esseri inevitabilmente climatizzati, con i nostri corpi nudi, lo sapevano bene già gli abitanti di Cuccuruzzu. La climatizzazione, però, è un lavoro di relazione, un venire a patti con i nostri compagni di strada non umani (piante, ossigeno, rocce) e non può essere più un gesto di solitaria arroganza dell’essere umano.