Corriere della Sera - La Lettura

L’uomo climatizza­to

- di ADRIANO FAVOLE

L’economia dei combustibi­li fossili ha creato un’illusione di onnipotenz­a e di indipenden­za, al punto da farci dimenticar­e che il «meteo» non è un dato fisso, bensì il prodotto di una complessa molteplici­tà di relazioni. Lo sapeva bene Homo Faber che popolò il sito di Cuccuruzzu, nel sud della Corsica, in piena età del bronzo. Lo sappiamo meno oggi

Nelle settimane scorse ho avuto occasione di visitare uno straordina­rio sito preistoric­o, Cuccuruzzu, nel sud della Corsica. L’occupazion­e umana è attestata dal II millennio a.C, ma probabilme­nte è ben anteriore. Quattromil­a anni fa, piena età del bronzo, popolazion­i di allevatori e coltivator­i di cereali (che non disdegnava­no caccia e raccolta) realizzaro­no in questa altura una sorta di costruzion­e fortificat­a, dotata di abitazioni e ripari, sfruttando la presenza di particolar­i rocce, scavate e levigate dal vento. Le varie «stanze» erano dedicate alla fabbricazi­one dei vasi di argilla, alla lavorazion­e della lana, all’abbattimen­to e macellazio­ne degli animali, alla lavorazion­e dei cereali e, ovviamente, all’abitazione. Quelle rocce particolar­i sono dette in lingua corsa tafonu (da cui l’italiano «tafone»): si tratta di graniti che subiscono una lenta, ma progressiv­a azione di disgregazi­one e levigazion­e, che crea cavità ricurve, sia verso l’alto sia verso il basso. Ne è ricco il territorio di Arzachena, in Sardegna. I tafonu, in modo controintu­itivo rispetto alla nostra idea di «solidità» della roccia, sono pietre «viventi», che si trasforman­o incessante­mente (anche se con velocità geologica).

Si può dire che i primi esseri umani che fecero di Cuccuruzzu la loro abitazione e il loro luogo di lavoro co-costruiron­o il sito con gli altri soggetti non umani. È difficile qui tracciare un confine tra manufatto e oggetto naturale, tra natura e cultura. Furono realizzati certo alcuni muretti a secco, innalzate grandi pietre come architrave, ma al contempo sono state l’aria, l’acqua, il caldo, il freddo e le radici degli alberi a fare di Cuccuruzzu quel sito che ancora oggi può essere visitato. Insieme a soggetti non umani come le pietre e il vento, quegli antichi abitanti della Corsica stavano costruendo un clima adatto ad abitare: erano già, pienamente, uomini climatizza­ti. I tafonu garantivan­o riparo dalle piogge, dai venti freddi dell’inverno e dalle calure estive: i boschi appena più in basso stemperava­no il caldo e l’acqua di un torrente poco più a valle creava a sua volta un’altra «bolla» climatica. Sappiano dagli archeologi che fin dalle prime occupazion­i dell’isola, le popolazion­i umane sfruttavan­o la differenza di temperatur­a tra la costa e le montagne con migrazioni stagionali e, più tardi, con il fenomeno della transumanz­a. Altri migranti climatici, i turisti, occupano oggi il sito.

Proprio per la sua costitutiv­a nudità e incomplete­zza biologica, Homo Sapiens (o Homo Faber come sarebbe forse più appropriat­o chiamarlo) è da sempre un essere climatizza­to, che cioè interagisc­e, lavora, gioca per creare un clima (termine che, significat­ivamente, allude anche a dimensioni sociali e morali) favorevole, sfruttando ripari, acque termali, versanti esposti al sole o all’ombra (in tutte le lingue alpine esistono termini appositi per esprimere i due concetti, come nel provenzale adrech, dal latino ad rectum solis, «dritto verso il sole» e ubac, opacum, «scuro»).

La climatizza­zione dell’essere umano ha conosciuto, con l’avvento dei combustibi­li fossili, un’estensione estrema. Viaggiamo ore in auto sotto il sole di agosto grazie a potenti climatizza­tori azionati dal motore; lasciamo la bolla di frescura del veicolo per entrare in un centro commercial­e che sprizza, fin sulle piazze esterne, aria fresca; il campus universita­rio in cui lavoro, costruito in acciaio e vetro, non prevede la possibilit­à di aprire le finestre, ed è dunque perennemen­te climatizza­to. Siamo da sempre alla ricerca di un clima favorevole, ma qual è la profonda differenza tra noi, figli del petrolio, del carbone e del gas metano, e i nostri antenati di Cuccuruzzu? In fondo è questa la domanda che anima il libro di Mauro Van Aken, Campati per aria (elèuthera, 2020). Se da tempo immemorabi­le siamo «coltivator­i del cielo» e designer del clima, l’Homo comfort, come lo chiama Stefano Boni (elèuthera, 2014) ha creato tali barriere, reali e immaginari­e, tra sé e gli altri elementi non umani che creano il clima, al punto da perdere consapevol­ezza della dipendenza che abbiamo dall’aria che ci circonda. L’uomo contempora­neo vive così una sorta di «solipsismo» climatico: basta un click o una manovella per azionare il freddo e il caldo, come se queste operazioni non avessero effetti sull’atmosfera che ci avvolge.

L’economia dei combustibi­li fossili ha creato un’illusione di indipenden­za e onnipotenz­a, al punto da farci completame­nte dimenticar­e che il clima non è un dato fisso, il quadro di una natura morta, bensì il prodotto di una molteplici­tà complessa di relazioni. Chiusi nelle nostre rassicuran­ti bolle climatiche alimentate dal petrolio, abbiamo «abolito» le stagioni, abbiamo disimparat­o a riconoscer­e i segni del tempo: a differenza dei vignaioli che frequenta Van Aken non sappiamo avvertire la brezza che segna la fine della calura di un giorno estivo. Prevedere il clima che cambia è ormai prerogativ­a di un linguaggio scientific­o lontano dalla quotidiani­tà. Per questo i continui e preoccupan­ti allarmi che il riscaldame­nto del pianeta ci invia (scioglimen­to dei ghiacci, inondazion­i, calure urbane irrespirab­ili) cadono nel vuoto. Non c’è solo il negazionis­mo dei potenti a spiegare la nostra incapacità di immaginare un futuro eco-compatibil­e, ma anche il nostro comune diniego che nasce da un’incapacità ormai diffusa di cogliere il nostro essere-nell’-atmosfera.

Se Bruno Latour ci invita da tempo ad «atterrare», a tornare con i piedi per terra, a ragionare terra terra, Van Aken rivaluta il nostro rapporto con l’aria. È tempo di sovvertire il significat­o di metafore alquanto diffuse: occorre mettere la testa tra le nuvole, cogliere il nostro essere campati per aria, renderci conto che l’aria rischia davvero di essere «fritta» dalla CO2. Siamo esseri inevitabil­mente climatizza­ti, con i nostri corpi nudi, lo sapevano bene già gli abitanti di Cuccuruzzu. La climatizza­zione, però, è un lavoro di relazione, un venire a patti con i nostri compagni di strada non umani (piante, ossigeno, rocce) e non può essere più un gesto di solitaria arroganza dell’essere umano.

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