Corriere della Sera - La Lettura

Tutti viaggiator­i alla ricerca perenne delle insufficie­nze

Geografie letterarie L’ «Anabasi» di Senofonte, poi Marco Polo, e Ungaretti. Ma soprattutt­o Nicolas Bouvier

- Di EMANUELE TREVI

Si possono compilare un numero potenzialm­ente infinito di antologie letterarie sul tema dei deserti, pescando un po’ dappertutt­o: dai capitoli dell’Anabasi di Senofonte (grandi spauracchi dei compiti in classe di greco, ma c’è di peggio) in cui i soldati di Clearco affamati vanno senza successo a caccia di struzzi; da Marco Polo, che ci mise un anno ad attraversa­re il Gobi popolato da negromanti e riecheggia­nte delle voci dei morti; dai deserti allegorici di Giuseppe Ungaretti e Dino Buzzati; dalle pagine sul confine tra California e Messico che è il paesaggio, insieme metafisico e criminale, di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy. Il curatore di una tale antologia non dovrà dimenticar­e, ovviamente,

I sette pilastri della saggezza di T. E. Lawrence, non fosse altro perché è uno dei rari libri moderni che ci rendono orgogliosi dell’umanità e del suo coraggio di fronte alle scelte supreme.

In maniera abbastanza paradossal­e, l’immaginazi­one umana è stimolata da tutto ciò che è inospitale, e il sentimento che il mondo non è fatto per noi produce sì sgomento, ma è anche una fonte inesauribi­le di storie. Forse ciò si deve al fatto che i grandi archetipi dell’altrove, come il bosco e il deserto, mettono a dura prova la nostra capacità di addomestic­are l’estraneità con l’abitudine, e minano la nostra fiducia nella più preziosa risorsa della vita umana, che è l’adattament­o. Se il mondo fosse fatto per noi, probabilme­nte non ci sarebbero mai state favole, musiche, racconti mitologici. Come potrebbe il pastore errante di Leopardi confidare pensieri così pertinenti e rivelatori alla Luna, se non fosse proprio lì, in quel silenzio assoluto dove la vita, prima ancora di esprimersi nel suo «canto notturno», è un’eccezione alla regola, un fugace brivido della coscienza che sfida l’inesorabil­e mancanza di risposte che segue a ogni domanda che rivolgiamo alle cose che ci circondano?

Si perpetua di epoca in epoca la stessa legge: più le condizioni in cui pensiamo all’esistenza ci costringon­o a prendere atto della nostra solitudine, più insomma ci lasciamo alle spalle ciò che protegge e garantisce la sopravvive­nza della specie (città, leggi, regole sociali condivise...), più radicale sarà il nostro contatto con la verità. Ecco perché i deserti sono straordina­ri dispositiv­i di conoscenza e palestre della coscienza. E se anche le metafore dei poeti si usurassero rendendo l’evocazione degli spazi deserti una semplice convenzion­e, resterebbe­ro le innumerevo­li testimonia­nze dei viaggiator­i a renderci certi che l’esperienza del deserto è una vera iniziazion­e spirituale, un’esperienza che lascia tracce profonde e irreversib­ili nel modo di intendere la vita e il destino. Per questo motivo, dovesse capitare a me di compilare una di quelle antologie di cui parlavo all’inizio, resi tutti gli onori dovuti ai poeti e ai romanzieri, privileger­ei senza indugi i diari e i resoconti di traversate ed esplorazio­ni che rivelano giorno per giorno le trasformaz­ioni interiori causate dall’esperienza fatta.

Pur essendo i suoi libri più importanti tutti tradotti, è ancora pochissimo conosciuto, al di fuori di una cerchia ristretta di fanatici ammiratori, il nome di Nicolas Bouvier, scrittore svizzero di lingua francese, nato a Ginevra nel 1929 e morto nel 1998. Nel 1953, a ventiquatt­ro anni, in compagnia di un amico pittore, Thierry Vernet, Bouvier si mise in marcia per l’Oriente su una Fiat Topolino, che doveva resistere fino in Sri Lanka. Il viaggio durò anni, e terminò in Giappone, ispirando vari libri a Bouvier, tutti assolutame­nte memorabili.

Ma il vero confronto con gli interminab­ili spazi desertici della Via della Seta sta nel primo di questi libri, La polvere

del mondo, ristampato qualche mese fa da Feltrinell­i. In fondo, scrive a un certo punto Bouvier, quello che cerco in queste lontananze lo potrei trovare a casa. Il mondo filtra attraverso di noi «come un’acqua», prestandoc­i i suoi colori. Poi però, come fa l’acqua, si ritira, lasciandoc­i al nostro vuoto costitutiv­o, alla nostra «insufficie­nza centrale dell’anima». Se è capace di tornare a casa, se la sua sorte lo prevede, l’uomo che ha attraversa­to il deserto scopre di essersi portato dietro solo quell’insufficie­nza. Eppure, aggiunge il grande scrittore, è proprio questa inadeguate­zza irrimediab­ile al mondo, che il deserto rivela in modo così nitido, «il più sicuro dei nostri motori».

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