Corriere della Sera - La Lettura
Tutti viaggiatori alla ricerca perenne delle insufficienze
Geografie letterarie L’ «Anabasi» di Senofonte, poi Marco Polo, e Ungaretti. Ma soprattutto Nicolas Bouvier
Si possono compilare un numero potenzialmente infinito di antologie letterarie sul tema dei deserti, pescando un po’ dappertutto: dai capitoli dell’Anabasi di Senofonte (grandi spauracchi dei compiti in classe di greco, ma c’è di peggio) in cui i soldati di Clearco affamati vanno senza successo a caccia di struzzi; da Marco Polo, che ci mise un anno ad attraversare il Gobi popolato da negromanti e riecheggiante delle voci dei morti; dai deserti allegorici di Giuseppe Ungaretti e Dino Buzzati; dalle pagine sul confine tra California e Messico che è il paesaggio, insieme metafisico e criminale, di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy. Il curatore di una tale antologia non dovrà dimenticare, ovviamente,
I sette pilastri della saggezza di T. E. Lawrence, non fosse altro perché è uno dei rari libri moderni che ci rendono orgogliosi dell’umanità e del suo coraggio di fronte alle scelte supreme.
In maniera abbastanza paradossale, l’immaginazione umana è stimolata da tutto ciò che è inospitale, e il sentimento che il mondo non è fatto per noi produce sì sgomento, ma è anche una fonte inesauribile di storie. Forse ciò si deve al fatto che i grandi archetipi dell’altrove, come il bosco e il deserto, mettono a dura prova la nostra capacità di addomesticare l’estraneità con l’abitudine, e minano la nostra fiducia nella più preziosa risorsa della vita umana, che è l’adattamento. Se il mondo fosse fatto per noi, probabilmente non ci sarebbero mai state favole, musiche, racconti mitologici. Come potrebbe il pastore errante di Leopardi confidare pensieri così pertinenti e rivelatori alla Luna, se non fosse proprio lì, in quel silenzio assoluto dove la vita, prima ancora di esprimersi nel suo «canto notturno», è un’eccezione alla regola, un fugace brivido della coscienza che sfida l’inesorabile mancanza di risposte che segue a ogni domanda che rivolgiamo alle cose che ci circondano?
Si perpetua di epoca in epoca la stessa legge: più le condizioni in cui pensiamo all’esistenza ci costringono a prendere atto della nostra solitudine, più insomma ci lasciamo alle spalle ciò che protegge e garantisce la sopravvivenza della specie (città, leggi, regole sociali condivise...), più radicale sarà il nostro contatto con la verità. Ecco perché i deserti sono straordinari dispositivi di conoscenza e palestre della coscienza. E se anche le metafore dei poeti si usurassero rendendo l’evocazione degli spazi deserti una semplice convenzione, resterebbero le innumerevoli testimonianze dei viaggiatori a renderci certi che l’esperienza del deserto è una vera iniziazione spirituale, un’esperienza che lascia tracce profonde e irreversibili nel modo di intendere la vita e il destino. Per questo motivo, dovesse capitare a me di compilare una di quelle antologie di cui parlavo all’inizio, resi tutti gli onori dovuti ai poeti e ai romanzieri, privilegerei senza indugi i diari e i resoconti di traversate ed esplorazioni che rivelano giorno per giorno le trasformazioni interiori causate dall’esperienza fatta.
Pur essendo i suoi libri più importanti tutti tradotti, è ancora pochissimo conosciuto, al di fuori di una cerchia ristretta di fanatici ammiratori, il nome di Nicolas Bouvier, scrittore svizzero di lingua francese, nato a Ginevra nel 1929 e morto nel 1998. Nel 1953, a ventiquattro anni, in compagnia di un amico pittore, Thierry Vernet, Bouvier si mise in marcia per l’Oriente su una Fiat Topolino, che doveva resistere fino in Sri Lanka. Il viaggio durò anni, e terminò in Giappone, ispirando vari libri a Bouvier, tutti assolutamente memorabili.
Ma il vero confronto con gli interminabili spazi desertici della Via della Seta sta nel primo di questi libri, La polvere
del mondo, ristampato qualche mese fa da Feltrinelli. In fondo, scrive a un certo punto Bouvier, quello che cerco in queste lontananze lo potrei trovare a casa. Il mondo filtra attraverso di noi «come un’acqua», prestandoci i suoi colori. Poi però, come fa l’acqua, si ritira, lasciandoci al nostro vuoto costitutivo, alla nostra «insufficienza centrale dell’anima». Se è capace di tornare a casa, se la sua sorte lo prevede, l’uomo che ha attraversato il deserto scopre di essersi portato dietro solo quell’insufficienza. Eppure, aggiunge il grande scrittore, è proprio questa inadeguatezza irrimediabile al mondo, che il deserto rivela in modo così nitido, «il più sicuro dei nostri motori».