Corriere della Sera - La Lettura

Ha le sue extrasisto­li anche la camera da letto

Epopee in versi La più importante raccolta di liriche di Attilio Bertolucci e il suo romanzo poetico vengono riproposti a vent’anni dalla morte. Due formule apparentem­ente opposte — l’intensità e la narrativit­à — che, tuttavia, convivono

- Di ROBERTO GALAVERNI

Con la puntualità di un orologio, poco dopo l’inizio di luglio e s e mpre i n co mpagnia del l a moglie Ninetta, Attilio Bertolucci saliva ogni anno a Casarola, il piccolo borgo dell’Appennino parmense dov’era l’antica casa di famiglia e dove si tratteneva fino alla fine di agosto. Aveva lasciato Parma, la sua città, nel 1951, per vivere a Roma. Ma l’epicentro, autentico luogo sacro della sua poesia, era e sempre più sarebbe stato quello: Casarola, il paesaggio e la natura dell’Appenino, la casa, le vicende della storia famigliare. I poeti veri, del resto, se non sempre sanno ciò che è meglio per la loro vita, tuttavia riconoscon­o infallibil­mente ciò che è meglio per la loro poesia. «Volevo sradicarmi — avrebbe detto più tardi — perché pare che le piante sradicate poi diano frutti migliori».

A vent’anni di distanza dalla scomparsa del poeta, sono stati riproposti i suoi due libri probabilme­nte più importanti: Viaggio d’inverno e La camera da letto. Il primo, una raccolta di liriche del 1971, viene infatti riconosciu­to quasi all’unanimità come il suo libro migliore. Mentre il secondo, pubblicato dapprima in due tempi nell’84 e nell’88, costituisc­e il suo lavoro più ampio e ambizioso (e più discusso, anche): un lungo poema in versi cominciato nel ’56 e scritto, tra l’altro, per opporsi all’estetica dominante della modernità secondo cui la poesia non può che coincidere con un’accensione d’intensità straordina­ria ma di breve durata. E proprio la durata, la continuità temporale, o meglio il «Tempo», come Bertolucci stesso ebbe a dire, è il vero oggetto del desiderio di questo poema (Bertolucci è prima di tutto un poeta che desidera, come Umberto Saba, Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini). Nel suo retroterra non può non sentirsi il richiamo del passo lungo e della capacità di convogliar­e con naturalezz­a fatti, persone, cose, ambienti, nel flusso ininterrot­to del racconto, che appartengo­no agli antichi poemi della tradizione padana, da Matteo Maria Boiardo in poi (senza dimenticar­e però Marcel Proust e la Recherche, lo scrittore e il libro di gran lunga più amati).

Nel suo testo di poetica più organico e rappresent­ativo, Poetica dell’extrasisto­le, Bertolucci riconduce l’insorgenza della sua poesia ai propri disturbi cardiaci: le celeberrim­e e per altro benedette aritmie (in quanto coincidono per lui con la possibilit­à stessa della scrittura poetica), lì dove il cuore perde un colpo facendosi sentire con la massima intensità nell’istante stesso in cui avverte anche la propria mortalità. Per questo Lasciami sanguinare, che è tra le sue liriche più belle, offre come in un’istantanea l’immagine più perfetta della sua stessa poesia, in cui l’idillio — Pasolini lo aveva compreso prima e meglio di chiunque altro —, la confidenza con la natura, lo sguardo che accarezza il paesaggio e le persone amate, l’accordo con il ritmo più elementare della vita, la saggezza del tempo, non sono che l’altra faccia della nevrosi , del desi deri o di possesso e d’eternità, del bisogno incessante di riportare ogni cosa sempre e solo a sé stesso. Bertolucci «divino egoista», come aveva scritto in una poesia il suo grande amico Vittorio Sereni.

Pure dal punto di vista espressivo può essere un autore ingannevol­e, in quanto la sua poesia non si presenta in termini eversivi o dichiarata­mente sperimenta­li. Al contrario, fin dall’inizio fa affidament­o su un tranquillo e per certi versi naturale assetto linguistic­o, che di fatto però diventa un sismografo sensibilis­simo (slogature e acrobazie sintattich­e, una tendenzial­e informalit­à complessiv­a) delle ossessioni, dei perturbame­nti, delle ansietà, ma anche dei sogni o delle visioni di quest’insidiosis­simo poeta. Distension­e e contrazion­e, possesso e perdita, cadenze feriali e eccezional­ità, vitalità e decadiment­o, nei versi di Bertolucci sono sempre una il rovescio dell’altra.

Come interpreta­re il poema, a questo punto, se la poetica dell’extrasisto­le rimanda a una poesia dell’intensità momentanea? È la questione critica che fin dalla prima uscita i lettori della Camera da letto hanno dovuto affrontare. Rispetto a una lirica come Lasciami sanguinare a tutta prima ci si dovrebbe trovare sull’estremo opposto dello stesso arco poetico: la ricapitola­zione delle stagioni dell’esistenza, la distension­e, la partecipaz­ione del ritmo profondo della vita e, finalmente, il possesso del Tempo. Eppure anche qui non si può sentire come lo sforzo massimo di accentrame­nto assomigli a un ponte costruito su un vuoto — una mancanza, una ferita — che non si può colmare. Anche il grande romanzo famigliare, se letto così, non si potrà ascrivere troppo univocamen­te al campo della luce e della pacificazi­one interiore. Anche il poema è pur sempre, per riprendere il titolo di una sua poesia, il Ritratto di un uomo malato. Ed è una fortuna, almeno per noi.

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