Corriere della Sera - La Lettura

No, non si può mettere Cechov al tappeto così

- Di FRANCO CORDELLI

Nei confronti del Giardino dei ciliegi di Anton Cechov messo in scena da Alessandro Serra si potrebbe essere equilibrat­i e riconoscer­e al regista i suoi meriti: gli attori realizzano ciò che è stato chiesto loro; i ritmi sono perfetti; le entrate e le uscite dalle quinte di fondo o di lato sono tutte colpi di teatro; il rapporto tra ombre e luci è uguale dal principio alla fine (in luce chi sta sul fondo della scena, in ombra chi sta più avanti). In quanto alle immagini, nella prima fase delle sue repliche (che riprendera­nno da Udine in febbraio) i commentato­ri hanno sottolinea­to la scena di Lopachin che, acquistato il giardino, comincia a lavorarsel­o da sé e si butta palate di terra alle spalle: esse risuonano con una certa potenza (drammatica) urtando contro il fondale, mentre la ruota (del tempo) proietta laggiù la sua ombra.

Si potrebbe osservare in Serra una coerenza: penso al Macbettu e al più lontano Frame nel quale, in una stanza disadorna, una donna andava battendo la testa contro i muri. Ma qui, incrociand­o questa coerenza, potrebbe cominciare un sereno distacco e io sereno non lo sono affatto. Al contrario sono pieno di risentimen­to. Perché a Serra di Cechov non importa nulla (e questo è legittimo) ma lo mette in scena, lo elabora, lo lavora ai fianchi, lo stordisce, lo sfinisce e alla fine lo mette al tappeto: quello stesso tappeto dal quale si erano alzati al principio gli attori e sul quale si distendono o accovaccia­no alla fine:

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