Corriere della Sera - La Lettura
No, non si può mettere Cechov al tappeto così
Nei confronti del Giardino dei ciliegi di Anton Cechov messo in scena da Alessandro Serra si potrebbe essere equilibrati e riconoscere al regista i suoi meriti: gli attori realizzano ciò che è stato chiesto loro; i ritmi sono perfetti; le entrate e le uscite dalle quinte di fondo o di lato sono tutte colpi di teatro; il rapporto tra ombre e luci è uguale dal principio alla fine (in luce chi sta sul fondo della scena, in ombra chi sta più avanti). In quanto alle immagini, nella prima fase delle sue repliche (che riprenderanno da Udine in febbraio) i commentatori hanno sottolineato la scena di Lopachin che, acquistato il giardino, comincia a lavorarselo da sé e si butta palate di terra alle spalle: esse risuonano con una certa potenza (drammatica) urtando contro il fondale, mentre la ruota (del tempo) proietta laggiù la sua ombra.
Si potrebbe osservare in Serra una coerenza: penso al Macbettu e al più lontano Frame nel quale, in una stanza disadorna, una donna andava battendo la testa contro i muri. Ma qui, incrociando questa coerenza, potrebbe cominciare un sereno distacco e io sereno non lo sono affatto. Al contrario sono pieno di risentimento. Perché a Serra di Cechov non importa nulla (e questo è legittimo) ma lo mette in scena, lo elabora, lo lavora ai fianchi, lo stordisce, lo sfinisce e alla fine lo mette al tappeto: quello stesso tappeto dal quale si erano alzati al principio gli attori e sul quale si distendono o accovacciano alla fine: