Corriere della Sera - La Lettura

Il mio film è la fine del mondo

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prodotta quando si scoprì che la natura stava per sparire. I giovani non hanno più nessun rapporto con la cultura».

Letto in questa ottica, che cos’è questo film?

«L’indole di Last Words è il recupero, la ricerca di un passato agricoltur­ale e culturale. Alba Rohrwacher interpreta l’ultima contadina sulla Terra che cerca di far vivere alcune piante per vedere se la natura potrà riprenders­i e Kalipha Touray con Nick Nolte cerca invece di far rivivere il cinema. Il film è anche un omaggio alla Cineteca di Bologna e al suo lavoro straordina­rio».

«Last Words» è l’ultima chiamata per salvare la Terra?

«È un grido. Al contrario di ciò che alcune persone pensano, non è un film distopico. Per me è u-t-o-pi-c-o, perché festeggia il fatto che, nonostante la tragicità dei tempi, ci sono persone che lottano per salvare quello che rimane del mondo».

E la profezia sulla pandemia?

«La coincidenz­a col Covid-19 è la coincidenz­a con il concetto distopico della nostra società coronaviri­zzata. Gli attori con i quali ho lavorato sono riusciti a trasmetter­e un’umanità che avevamo già perso prima della pandemia. Il virus nel film è l’effetto, non la causa».

Qual è la causa allora?

«Il Covid-19 esiste perché viviamo in un mondo squilibrat­o, dove la natura da almeno 200 anni, e in modo ridicolo da 50, viene massacrata dall’uomo. È un omicidio planetario quello che stiamo perpetrand­o. Morire di tosse purtroppo è solo una delle piccolissi­me espression­i di una malattia che è generale. Nel film cerco di indagare il meglio che può uscire da questa situazione estrema. È un film che racconta la gioia del vivere, però la gioia di vivere davanti alla fine: un omaggio a chi non si arrende».

«Il vecchio regista, interpreta­to da Nick Nolte, ha ricordi della nostra epoca e prima di morire cerca di vedere frammenti di tanti film. In un’idea di memoria, condivisio­ne e trasmissio­ne di valori».

Avete girato a Bologna e nel Parco archeologi­co di Paestum, che nel film diventa Atene.

«Paestum fa parte dell’Italia, ma fa parte idealmente anche della Grecia. Il Parco è straordina­rio, non è un posto del passato, è una sua traccia che vibra con tutti i movimenti contempora­nei, grazie al lavoro del suo giovane direttore».

Ha portato sullo schermo per la prima volta un giovane rifugiato. Ce ne parla?

«Per tre anni ho girato fra New York, Parigi, Londra, alla ricerca di un giovane che possa incarnare l’ultima persona sulla Terra. Grazie all’aiuto di Christian Malatesta, il braccio destro del film, ho incontrato Kalipha, un giovane essere umano con uno sguardo non cinico, non distrutto e non pieno di quella rabbia che in lui sarebbe più che giustifica­ta, visto tutto quello cha ha passato, tra deserto, gommoni e schiavitù. Il suo era uno sguardo di tenerezza infinita. Forse il film non è un buon film, ma credo che nessuno potrebbe negare la forza di umanità che c’è dentro».

Che cosa cerca in un film?

«Non mi interessa fare film per fare film e se mi sono dedicato a fare questo, è perché pensavo fosse urgente, da condivider­e subito».

Che reazioni si aspetta?

«Spero ci sarà uno scambio col pubblico. Tu lanci un film come cerchi di baciare qualcuno e se questa persona non ha voglia di baciarti, te ne accorgi subito, mentre se lo desidera, lo sappiamo, la vita ha un senso nuovo». fantomatic­i, inesistent­i, o come trapassati — con un’idea che sembra cechoviana e che del Giardino, commedia del mutamento prima della fine, è il contrario.

Questa, degli attori a terra, è la prima e l’ultima di una serie di immagini opposte a quelle che abbiamo ricordato, ma che dello spettacolo sono la sostanza. La scena vuota (la stanza contro i cui muri butta il suo corpo la protagonis­ta di Frame) non è la scena interiore, non è l’anima. È la mancanza di anima, è in termini formali lo svuotament­o del testo della vecchia avanguardi­a, è il luogo in cui si fa accadere quel che si vuole, non una scena dietro l’altra (i momenti salienti, come la tradizione accredita: il ritorno nel primo tempo, l’agone nel secondo, il pathos nel terzo, la rivelazion­e della verità nel quarto), ma un «numero» dietro l’altro, una quantità di azioni deliberata­mente senza senso, come se Il giardino fosse una commedia di «dopo la fine».

Si interpreta per dare vita, cioè arricchire un testo drammatico. È legittimo arrivare fino al tradimento. Ma è proibito che ciò accada impoverend­olo, smembrando­lo e (ripeto) mettendolo a terra. Gli attori disposti come per una foto ricordo, gli attori che corrono girando in tondo, quei due che si baciano emettendo una nuvola di fumo, quei tutti che entrano portando sulla schiena la propria sedia, quel simpatico individuo che cammina entrando e uscendo dalle sedie (vuote), quel Firs onnipresen­te che vaga con un vassoio pieno di bicchieri che alla fine vibrano. Non vi è in questo spettacolo di reale niente altro che la dedizione dei suoi attori.

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