Corriere della Sera - La Lettura
Matite a scoppio ritardato
Vittorio Giardino, bolognese classe 1946, è uno dei grandi maestri del fumetto italiano e mondiale. Rizzoli Lizard sta ripubblicando in volume tutta la sua opera, dalle storie di Sam Pezzo a quelle di Max Fridman e Jonas Fink fino al più recente volume, Viaggi, sogni e segreti, in arrivo il 25 agosto, che raccoglie le sue storie brevi.
Giardino, tornano alcune sue storie che non si vedevano da decenni, ma del resto lei costringe spesso i lettori a tempi lunghi. Prendiamo Jonas Fink: più di vent’anni per leggere l’ultima parte!
«Ho un limite: reagisco a scoppio ritardato. Quando nel mondo hanno luogo avvenimenti che mi destano un’impressione profonda, spesso mi ispirano un lavoro, ma solo tornando a galla anni dopo. E travestiti, come i sogni. Jonas debutta nel 1992: cominciai quella storia ambientata nella Cecoslovacchia stalinista elaborando l’emozione provata alla caduta del Muro di Berlino. Realizzai le prime due parti, ma poi scoppiò la guerra in Jugoslavia e anche questo fatto mi colpì molto, persuadendomi a cominciare una storia ambientata in un’altra guerra civile, quella spagnola. Così mi imbarcai in No pasaran!, il mio terzo Fridman. Fu un lavoro lungo, e solo quando lo finii tornai a Jonas».
Il suo tratto mostra una stabilità sorprendente nei decenni.
«È vero che una volta trovata una certa maturità il mio tratto è rimasto quello, ma tra i due Fink una differenza c’è. Nell’ultima parte, che si svolge nel ’68, ho cambiato palette, le scene sono più colorate, laddove nelle prime regna molto il grigio, per rendere l’atmosfera opprimente dello stalinismo».
Il suo ultimo grande cambio formale è stato dopo Sam Pezzo: là non usava ancora gli acquerelli e il segno era più caricaturale.
«Creai Sam su consiglio del direttore del “Mago”, una rivista lanciata da Mondadori per fare concorrenza a “Linus”. Mi spiegò che il fumetto premiava il personaggio ricorrente, così mi inventai questo detective alla Chandler e lo piazzai in una strana città, che poi era una Bologna trasfigurata. Il bianco e nero aveva ragioni pratiche: all’epoca le pagine a colori costavano molto e si riservavano alle star, non certo agli esordienti. Essendo all’inizio, ero influenzato da molti grandi autori: credo che in Sam Pezzo ci siano echi di José Muñoz, di Jacques Tardi, dell’underground americano e anche del primo Andrea Pazienza, che ogni tanto incrociavo per strada».
Non frequentava la «scena bolognese»?
«Potrei mentire e fare bella figura, ma dirò la verità: ho avuto pochi contatti con i gruppi che ruotavano attorno a “Cannibale” (1977-79, ndr) e ad “alter alter” (nata nel ’77, ndr). La ragione è semplice: ero più giovane di loro come autore, essendo esordiente, ma allo stesso tempo ero più vecchio anagraficamente. Certe libertà non le avevo. Non potevo fare nottata in qualche bar o partecipare a eventi che non portassero guadagni immediati: avevo già due figlie, avevo lasciato un lavoro da ingegnere per il fumetto e quindi con il fumetto dovevo contribuire al mantenimento della famiglia. Non era tanto una questione stilistica: per quanto oggi mi si associ alla “linea chiara”, è vero che Sam Pezzo ha punti in comune con diversi di quegli autori; quanto piuttosto di ritmi di vita differenti. Lo dimostra il fatto che andai avanti a lungo con Sam senza pormi il problema di sperimentare altro, per una ragione semplice: “Il Mago” pagava».
Poi però chiuse.
«Credevo di essermi stabilizzato e invece dopo un anno e mezzo dovevo già inventarmi qualcos ’altro! Vidi che in Francia esisteva il formato libro e pensai che avrei potuto fare qualcosa del genere. Anni prima Hugo Pratt, con Una ballata del mare salato, aveva dimostrato che si poteva fare un romanzo a fumetti, così mi lanciai su una storia di 90 pagine a colori».
Un azzardo, per l’epoca.
«Un gesto incosciente! Lo feci perché non sapevo nulla del mercato, ignoravo
che fosse una follia, ma ero spalleggiato da uno più matto di me, Luigi Bernardi. L’avevo conosciuto come conduttore del programma Segnali di fumo su una radio indipendente, e quando fondò la sua prima casa editrice, L’isola trovata, anche il mio fumetto, che era poi Rapsodia un
gherese, la prima storia di Max Fridman, trovò casa. Avrebbe potuto naufragare, invece fu notato in Francia, venne tradotto, ebbe successo, le cose cominciarono a marciare bene, ed eccoci qua oggi».
Sam pare l’emanazione del suo subconscio: c’è una tavola in cui irrompe nel suo studio come per minacciarla! Max invece ha l’aria di un suo alter ego.
«In quella tavola Sam mi minaccia perché non lo disegno più! Ricevevo molte lettere di lettori che lo volevano rivedere. Oggi sono contento che faccia la sua vita senza di me. Scrivere un giallo o un noir e trovare ogni volta un intreccio che tenga e non sia risaputo, è difficile. E volevo ampliare il mio orizzonte fuori dai confini cittadini: con Max Fridman si viaggia, nel tempo e nello spazio. Dicono sia un
mio autoritratto. Non è così... O meglio: non è così ma un fondo di verità c’è».
A proposito di viaggi nel tempo: nel nuovo libro sono molto presenti gli anni Ottanta, e sembrano un’epoca non meno lontana degli anni Trenta di Fridman. Erano davvero così «goderecci»?
«Dal mio punto di vista sono vicini, ahimè! Ero già adulto e vivevo e osservavo situazioni che poi rielaboravo secondo il modello della grande commedia all’italiana... È vero, ci sono feste, piscine, vacanze lussuose, tradimenti... Ma al di là dell’epoca, la ragione è di nuovo pratica: a quei tempi i settimanali generalisti cercavano fumetti brevi per riempire le pagine durante l’estate; si prestavano storie con quel taglio». C’è anche più eros del suo solito.
«Mi piace suggerire, ma senza andare sull’atlante di anatomia... Ne discuto spesso con Manara, che ha superato certe forme di pudore. È vero che una volta i lettori si aspettavano qualche tocco piccante, ricordo che quando uscì No pasa
ran! alcuni mi scrissero manifestando delusione per il fatto che tra Max Fridman e la protagonista femminile non scattasse la scintilla! Ma i miei personaggi hanno sempre un margine di autonomia, e se Max ha deciso così...».
Nell’introduzione all’ultima storia del nuovo volume racconta che ancora negli anni Novanta era circondato da gente che non riteneva i fumetti una cosa seria. Oggi la «nona arte» è rispettata, lei non è meno considerato dei nostri migliori scrittori...
«Non c’è dubbio che abbia acquisito una dignità culturale prima impensabile; una volta però Tex, Topolino o Diabolik facevano tirature incredibili e anche le riviste non se la cavavano male. Non vorrei che troppa “dignità” avesse fatto male alle vendite! Certo, dal punto di vista della considerazione c ’è stato un bel passo avanti e mi spiace per i miei colleghi più anziani, oggi defunti, che non hanno potuto vivere questo cambiamento. Penso a Magnus, che non ha mai avuto riconoscimenti culturali pur avendo firmato opere straordinarie, e prima di lui tanti altri. Sul paragone con i grandi scrittori... non esageriamo!». Esageriamo pure. Nella sua scrittura c’è un alternarsi tra serenità e inquie
tudine di grande raffinatezza letteraria.
«È possibile che da giovane fossi inquieto e cercassi la serenità, oggi è il contrario; di certo sono incuriosito dalle situazioni che nascondono fatti diversi da quello che si crede. Quante volte capita di sentire racconti che suonano falsi, si pensi a Ustica o alle prime ipotesi sulla strage di Bologna, venivano fatte affermazioni che suonavano fasulle lontane un miglio... Questo mi inquieta e mi interessa, così come mi interessano gli episodi storici che, guardati da vicino, svelano dettagli scomodi. Per fare una piccola anticipazione, nel libro al quale sto lavorando adesso si parla di migrazioni negli anni subito prima della Seconda guerra mondiale e di un fatto che pochi amano ricordare: che queste persone non le voleva nessuno, anche se fuggivano letteralmente dallo sterminio. Va da sé che mi sono ispirato a fatti reali e recenti, ma come al solito ho reagito lentamente e sono finito in un’altra epoca». Se siamo a fine anni Trenta... rivedremo Max Fridman?
«Sì».
Classe 1946, Vittorio Giardino è uno dei maestri del fumetto. La sua città è Bologna ma negli anni Settanta non frequentava la leggendaria scena alternativa cittadina: «Ero troppo giovane come autore, vecchio anagraficamente». Ora un volume ripropone sue storie rare. Spesso, tra un libro e l’altro passa molto tempo. «È un mio limite. Avvenimenti — dice — che mi destano profonda impressione tornano a galla più avanti. Travestiti, come i sogni»