Corriere della Sera - La Lettura
Figli inquieti di un’Olanda tropicale
Tra il 1945 e il 1949 i Paesi Bassi combatterono invano per mantenere il controllo coloniale dell’Indonesia. Il romanzo di Alfred Birney si aggira fra i traumi di una generazione di meticci e gli orrori di una guerra tanto sporca quanto rimossa
Uscita com’era uscita dalla Seconda guerra mondiale, l’Olanda si infilò in un altro conflitto, lontano geograficamente, comunque atroce. Dal 1945 al 1949 le truppe dei Paesi Bassi s’impantanarono nelle Indie Orientali, cioè l’Indonesia, per tentare di mantenere i propri possedimenti coloniali, peraltro emersi dalla spietata occupazione giapponese. Fu un Vietnam olandese, 100 mila coscritti spediti ai tropici a combattere i nazionalisti di Sukarno che alla fine ottennero l’agognata merdeka: la libertà, l’indipendenza. Guerra sporca, soprattutto una guerra dimenticata nel cuore di una nazione al cuore dell’Europa. Perché le Indie non erano vuote ma, al contrario, costituivano — soprattutto nel fulcro amministrativo ed economico: l’isola di Giava — un universo sociale complesso, dove convivevano élite olandese, un vasto meticciato, locali schierati pro e contro i signori europei, a seconda delle convenienze. La guerra prima e poi l’abbandono dell’arcipelago avrebbero importato il dopoguerra nelle città del regno.
Questa è la cornice, e la sostanza, e l’anima, de L’inquisitore di Giava di Alfred Birney, scrittore olandese che per origini familiari e anagrafe (1951) porta addosso il carico di quell’esperienza. Ma il libro è un romanzo, e come tale si consegna ai suoi personaggi: al padre Arto e al figlio-narratore Alan, più altri laterali.
Dall’Indonesia viene Arto, due volte bastardo: perché figlio di un olandese, di cognome Nolan, e di una cinese (dunque è un Indisch); e perché illegittimo. Viene picchiato dai fratelli, si fa le spalle larghe, si trova dei lavori, entra nella resistenza antigiapponese, viene arrestato e torturato, scappa e rivendica la propria fedeltà alla regina, fino ad arruolarsi nella Marina coloniale. Combatte gli indipendentisti e interroga i prigionieri con ferocia.
Finita la guerra, s’imbarca per i Paesi Bassi e sposa una delle ragazze con le quali intratteneva, un po’ alla cieca, una corrispondenza epistolare. Lui e «la cicciona» avranno Alan e altri 4 figli e tutto sarà tranne che un matrimonio felice. La loro è una «casa piena di botte, fantasmi e racconti di guerra», anzi tante case, perché è sempre «tempo di traslocare. Via dalla vergogna». Arto si circonda di libri sulla guerra, modellini di aerei, frequenta improbabili antichi commilitoni, si sente braccato dai nemici, picchia moglie e figli. Di notte sulla macchina per scrivere batte le proprie memorie. Va male tutto e i figli, sempre al confine dello stigma sociale perché «avevamo un aspetto tropicale», gli vengono portati via dai servizi sociali. Sorte segnata: «Tutti questi Indisch hanno una rotella fuori posto».
Alan odia il padre: «Io lacrime non ne ho versate. Non te le ho concesse». Intanto gli anni trascorsi in collegio consentono al ragazzo iniziazioni decisive: la musica, le donne, il mondo fuori. L’istituzione del collegio rimanda alla Marina che ossessiona il padre e la comprensione tra i due diventa così possibile: il figlio intuisce che Arto, «invece di lasciarsi quella guerra alle spalle, se l’è portata dentro tutta la vita», cresciuto com’era, lui, «nel lato oscuro della società delle Indie».
Con un classico espediente narrativo, Birney affida al memoriale di Arto la condivisione del passato a Giava. Non è olandese né indonesiano, è terzo, ibrido, non si ritrova. E, come riconosce uno zio, «l’odio e il desiderio di vendetta oscurano il tuo cuore mentre vieni sballottato tra due mondi»: Arto sente «di non essere a casa» nella «società coloniale razzista» e quando ottiene il cognome olandese, non più Nolan ma Noland, si rende conto che suona no land, come a rimarcare il suo essere senza terra (d’altra parte «voi olandesi potete tornarvene a casa tranquilli, ma noi Indisch dove possiamo andare, noi che abbiamo combattuto così a lungo, così duramente per la regina e per la patria?»). I ricordi del padre, messi nero su bianco, si rivelano una sequenza di violenze, con prigionieri australiani che i giapponesi gettano in pasto agli squali, sparatorie, rappresaglie. Sembra che Arto, che nella giungla non si abitua alle razioni di cavolo e salsiccia, ammazzi nemici e spie più di chiunque altro: sopravvive a tutto, salva amici e massacra innocenti, e viene processato per aver fatto morire dei prigionieri.
C’è memoria e memoria. Quella che l’Olanda ha perso, e che ha tormentato Arto, la cerca il figlio: «Neanche io ho mai trovato il mio posto in quest’Olanda». I fantasmi del padre sono nascosti, la coscienza del Paese li evita. «“L’esercito dimenticato”: non è così che li chiamano adesso, i giovani di quella guerra dimenticata? Ne caddero più di seimila», i Paesi Bassi «non hanno un’idea di cosa sia accaduto laggiù, e se ce l’hanno, la rimuovono»: altro che gloriose Indie, «la storia che vi è associata e di cui agli olandesi piace tanto leggere è una menzogna».
Però, forse, anche il consuntivo esistenziale del padre è una menzogna. Certi dettagli non tornano, i figli di Arto, che nel frattempo è morto in Spagna, si interrogano sulle esagerazioni, sulle invenzioni del memoriale. Il padre, disperato, si è probabilmente allestito una vita sognata, si è dato un abito eroico, ha tentato di fabbricarsi radici epiche per scampare a uno sradicamento prosaico, da uomo «senza prospettive, con un passato inconcluso dietro le spalle e un futuro senza via d’uscita davanti a sé». Arto non aveva forse mai avuto nulla e ha provato a plasmarsi come un mito. Quasi una excusatio non petita: ma «se uno deve scusarsi continuamente della sua vita, la morte viene a prenderlo con piacere?». Così per i figli di Arto l’Olanda diventa magari ciò che il padre fingeva che fosse l’Indonesia per lui: un campo di battaglia, la gestazione di un’affermazione di sé poi abortita. Come osserva Alan, «l’Olanda allora è per me la versione locale della guerra di mio padre». Alan come Arto. Il rispecchiamento si compie, le parole del figlio sono la vittoria che al padre è sfuggita.