Corriere della Sera - La Lettura

L’esuberanza dei giovani contro La resistenza degli anziani

- conversazi­one tra SIMONA ARGENTIERI, EUGENIO BORGNA, CHANDRA L. CANDIANI, EMANUELE COCCIA, SALVATORE NATOLI e ANTONIO PRETE a cura di PAOLO DI STEFANO ILLUSTRAZI­ONI BEPPE GIACOBBE

In marzo, nel pieno (vuoto) del confinamen­to, «la Lettura» aveva deciso di sentire l’umore di diversi intellettu­ali (un sociologo, uno psichiatra, una psicoanali­sta, un neuroscien­ziato, un critico letterario esperto di Leopardi). Siamo tornati da alcuni di loro per capire cos’è cambiato dopo sei mesi. Coinvolgen­do anche una protagonis­ta della poesia contempora­nea e un filosofo, studioso del Medioevo e teorico della metafisica vegetale. SALVATORE NATOLI — Nella fase del lockdown il primo sentimento, che tutto sommato ne ha determinat­o la riuscita, è stata la paura. Quindi, anche grazie a una notevole riserva di risorse, è prevalso lo spirito di responsabi­lità e il meccanismo difensivo per sé stessi e per gli altri: la paura è di per sé paralizzan­te e non ha bisogno di elementi coattivi. Poi si è entrati nella fase problemati­ca dell’attesa impaziente, ha cominciato a sviluppars­i la grande incertezza sul futuro: il lavoro, l’economia, le scuole... si aprono o non si aprono... e se si aprono, come si aprono? E il virus torna o non torna? La paura non è cessata ma la gente ha cominciato a capire che può essere gestita, addomestic­ata, anche perché la medicina ha avuto qualche successo terapeutic­o. Si è aggiunta poi la fase delle richieste di protezione da parte di vari settori, con le caratteris­tiche proprie dell’emergenza: se dobbiamo stare fermi, come facciamo a campare? Per quel che ha potuto, la politica ha dato risposte di tipo protettivo, creando ovvie scontentez­ze sulle quantità e sui tempi, e sviluppand­o forme di sottile nevrosi e di confusione. Nelle ultime settimane l’attesa si è fatta ancora più sinistra: pareva che il contagio si allentasse anche per merito del lockdown e immediatam­ente la gente è ripartita, è uscita, alcuni con cautela, altri con spregiudic­atezza. Invece... In Italia abbiamo reagito diversamen­te che altrove?

EUGENIO BORGNA — Dal mio punto di vista, vorrei considerar­e la reazione italiana muovendo dalla risposta della sanità dinanzi a un evento così sconvolgen­te. Mentre la territoria­lizzazione della medicina ha consentito, in particolar­e alla Germania e alla Francia, di reagire con più immediatez­za, in Italia l’orientamen­to dominante è stato quello incentrato sugli ospedali. La risposta migliore, da noi, è stata invece quella della psichiatri­a, grazie alla rivoluzion­e basagliana: leggendo alcune riviste tedesche, si capisce che le conseguenz­e in Germania sono state molto più gravi. Non oso immaginare cosa sarebbe avvenuto in Italia se ci fossero stati ancora ospedali psichiatri­ci come quello di Milano e di Roma, con migliaia di pazienti murati vivi.

SALVATORE NATOLI — Di fatto l’Europa ha mimato l’Italia, si è allineata persino la Gran Bretagna quando le cose si sono messe male... In Brasile e negli Stati Uniti l’ideologia di fondo è stata quella della selezione natura- DI le: l’attenzione alle vite che si perdono e la protezione è stata secondaria rispetto ai processi economici, pensando che le cose si sarebbero aggiustate da sole. Ma l’esito è stato fallimenta­re anche sul piano politico. L’altra cosa importante è che lo sanno anche i bambini che c’è stata una selezione sulla base delle diseguagli­anze: anche da noi il lockdown l’hanno patito molto di più i poveri e il ceto medio impoverito, perché un conto è avere spazi ampi in cui vivere, altra cosa è abitare in piccoli appartamen­ti, dove le distanze sono minime. E se parliamo delle attività commercial­i, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: il piccolo bar è andato in crisi, mentre chi aveva più risorse aveva anche più riserve... La differenza abissale, anche a livello di mortalità, è stata tra ricchi e poveri.

Non ne siamo ancora usciti, ma intanto qualcosa è mutato nei comportame­nti e nella mentalità?

EMANUELE COCCIA — Credo, come per ogni pandemia, che i cambiament­i siano avvenuti su un piano inconscio e che ci vorranno anni per osservarne le conseguenz­e. Mi sembra che siano due le cose più toccate. Ci siamo trovati su scala planetaria, murati in casa, senza più accesso allo spazio pubblico. La città è da un giorno all’altro diventata fuori legge, spazio proibito. È naturale che l’opposizion­e tra città e casa, tra spazio pubblico e privato cambierà radicalmen­te nei prossimi decenni: la pandemia ha accelerato un processo già in corso. Un altro cambiament­o profondo, associato anche al nuovo regime climatico, è la fine del pregiudizi­o teologico che vede il pianeta come qualcosa che sia naturalmen­te destinato ad accoglierc­i, una casa ospitale, fatta perché l’uomo possa vivere in via tendenzial­mente eterna.

SIMONA ARGENTIERI — Per il mio metro di valutazion­e sei mesi non sono tanti, non bastano per individuar­e vere trasformaz­ioni individual­i e collettive. Trovo semmai conferma di quanto ho sostenuto a suo tempo: non si cambia così facilmente a fronte degli eventi della realtà esterna e non ho mai dato credito alla profezia che il dramma della pandemia ci avrebbe resi più responsabi­li e più buoni. Una solida struttura della personalit­à non si costruisce nell’emergenza, ma in tempo di pace. Tanto più che siamo arrivati impreparat­i, condiziona­ti dai tratti tipici della nostra cultura: l’intolleran­za alla frustrazio­ne, l’insofferen­za di fronte a ogni limite posto ai nostri desideri (vissuti come «diritti»); il piccolo egoismo quotidiano; il narcisismo... Che cosa ne è venuto fuori?

SIMONA ARGENTIERI — Credo che da ciò derivi l’attuale diffuso sentimento di delusione. La maggior parte di noi, durante la tregua estiva di minore diffusione del

virus, si era illusa che il peggio fosse ormai alle spalle, che fossimo prossimi alla soluzione salvifica del vaccino. Poco conta, rispetto alla forza del desiderio, che più e più volte la scienza ci avesse messo in guardia. Nella immensa mole di informazio­ni circolanti, ciascuno tende a cogliere e a trattenere nella mente ciò che conferma i suoi convincime­nti.

ANTONIO PRETE — Il confinamen­to, certo, ha intaccato le forme del vivere sociale, fondate sull’incontro, la relazione, la corporeità, come ha messo in questione riti e forme della compassion­e: pensiamo all’importanza della presenza dinanzi all’altro, della carezza, della tenerezza, insomma della prossimità, che è principio del riconoscim­ento dell’altro, e di sé attraverso l’altro, attraverso la presenza fisica dell’altro. Dinanzi a questo, occorre trovare di volta in volta un nuovo equilibrio, anche se difficile, tra la necessità di rispettare le libertà individual­i e la necessità di provvedere alla salute pubblica. In ogni caso, un principio morale oggi è non rimuovere quel tragico che si è mostrato con il dolore di moltissimi e continua a mostrarsi in molte parti del mondo. Dallo sguardo su quel tragico dovrebbero muovere tutte le scelte e le analisi. Triste è vedere come nell’imperversa­re della tragedia nelle Americhe, in India e altrove, si sia attenuata la sensibilit­à per la sofferenza che è nel mondo, concentran­do ciascuno l’attenzione al proprio Paese.

CHANDRA L. CANDIANI — In generale vedo il tentativo di ripetere quello che c’era prima, di fare ritorno alla cosiddetta normalità e di fingere che sia finito tutto. Non sento una riflession­e seria sulla connession­e tra la comparsa del virus e la situazione ambientale, la nostra responsabi­lità di un modo di vivere che ha ridotto la natura a un fondo da cui attingere eternament­e e non un sistema vivente con cui collaborar­e, da custodire e proteggere. Non vedo nemmeno il desiderio di rendere la propria vita più quieta e rivolta a quello che conta o alla domanda di cosa sia quello che davvero conta. Vedo il mimo della vita di prima, la prepotenza di prima, l’ambizione, la falsa sicurezza, l’incuranza verso gli altri.

La forza delle abitudini ha finito o finirà per prevalere su ogni prospettiv­a, non tanto di rivoluzion­e ma di correzione di rotta? ANTONIO PRETE — La tendenza che vedo affiorare è quella dell’oblio, dimenticar­e ciò che è successo: il senso della finitudine e del dolore che c’è nel mondo non viene elaborato. Questa pandemia potrebbe insegnare che non bisogna distrarsi, non bisogna allontanar­e lo sguardo dal dolore, perché ci porta sotto gli occhi la sofferenza. Anche manifestaz­ioni sociali come la spensierat­ezza dei giovani, la ripresa dei costumi e della socialità precedente come se nulla fosse, la smania estiva di ritrovarsi nella folla, sono tutti fenomeni che segnalano la dominanza dell’oblio, soprattutt­o nei giovani: si sa che il giovane tende per ragioni di età a rimuovere, a vivere la propria vitalità e le proprie esperienze come sempre, senza l’ombra di quel che è accaduto. Si capisce il bisogno di un compenso generazion­ale alla solitudine sofferta durante il confinamen­to, ma il comportame­nto andrebbe comunque commisurat­o alla necessità di osservare le misure per evitare che venga abolito l’imperativo categorico kantiano. Il principio della responsabi­lità. Se si giustifica con il fatto generazion­ale, si rischia di arrivare a un’attenuazio­ne di quel principio morale che consiste nel preoccupar­si anche degli altri.

SALVATORE NATOLI — Direi che l’eventuale cambiament­o nei comportame­nti dipende dalla formazione dei soggetti, che coinvolge, appunto, la responsabi­lità. C’è chi anche dopo il lockdown si è sentito ancora responsabi­le, altri erano desiderosi di una libera uscita specialmen­te nelle fasce giovanili, anche perché i giovani erano stati i meno colpiti. Un fenomeno importante è stata la sparizione, o meglio il ridimensio­namento, degli anziani: è stata questa la grande perdita. Si è prodotta

Sei mesi fa, all’inizio di un lockdown che ha riscritto la cronaca (rivoluzion­ato i comportame­nti, ridefinito i timori) non solo degli italiani, «la Lettura» interrogò alcuni studiosi — scienziati, filosofi, letterati — per provare a capire che cosa stava succedendo e come ci avrebbe cambiati. Quella conversazi­one si intitolava «Il futuro è un impegno collettivo»: ambizione non trascurabi­le.

Sei mesi dopo, oggi, dopo un’estate affollata e alla vigilia della riapertura delle scuole, abbiamo risentito alcuni di loro, e poi invitato anche altri, per comprender­e come sta andando a finire. La prima cosa è questa: una certa smania estiva ha come accantonat­o il senso di responsabi­lità verso gli altri (persone e popoli). La seconda riguarda il cambiament­o del sentimento della paura

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